Mentre i giornalisti di mezzo mondo continuano a
ripetere come un mantra l'eulogia - ormai già stereotipata - di Nelson
Mandela, ben pochi ricordano un evento che ebbe luogo in Sud Africa
oltre quarant'anni fa: la visita, inattesa ed improvvisata, di Robert
Kennedy.
Nonostante nel 1966 Robert Kennedy fosse un senatore degli Stati Uniti, era stato invitato in Sud Africa dall'Università di Cape Town in forma privata. Ai governanti di allora infatti interessava poco un senatore americano che aveva lottato apertamente, nel proprio paese, per i diritti civili. Ma Kennedy riuscì comunque a trasformare questo suo viaggio privato in un evento politico di grande importanza.
Erano gli anni più bui dell'apartheid, un periodo nel quale la repressione da parte dei bianchi aveva raggiunto le massime vette, con rastrellamenti sistematici, arresti di massa ed esecuzioni sommarie.
Nelson Mandela era uno dei giovani leader neri finiti in prigione, ed era stato condannato all'ergastolo. Quasi nessuno sapeva chi fosse, e Mandela era destinato a finire i suoi giorni nell'oblio della storia.
Ma c'era già qualcuno, venuto da lontano, che aveva saputo dare voce a quella che sarebbe in seguito diventata l'anima del movimento che avrebbe portato alla definitiva cancellazione dell'apartheid.
In Sud Africa Robert Kennedy tenne cinque discorsi, in cinque università diverse, sempre davanti ad un pubblico fatto esclusivamente di bianchi. Quella che segue è una sintesi di due dei cinque discorsi: il primo, tenuto a Cape Town, e l'ultimo, tenuto due giorni dopo a Johannesburg. Questo video ritrae l'introduzione di Kennedy al suo primo discorso (vedi testo a seguire).
Nonostante nel 1966 Robert Kennedy fosse un senatore degli Stati Uniti, era stato invitato in Sud Africa dall'Università di Cape Town in forma privata. Ai governanti di allora infatti interessava poco un senatore americano che aveva lottato apertamente, nel proprio paese, per i diritti civili. Ma Kennedy riuscì comunque a trasformare questo suo viaggio privato in un evento politico di grande importanza.
Erano gli anni più bui dell'apartheid, un periodo nel quale la repressione da parte dei bianchi aveva raggiunto le massime vette, con rastrellamenti sistematici, arresti di massa ed esecuzioni sommarie.
Nelson Mandela era uno dei giovani leader neri finiti in prigione, ed era stato condannato all'ergastolo. Quasi nessuno sapeva chi fosse, e Mandela era destinato a finire i suoi giorni nell'oblio della storia.
Ma c'era già qualcuno, venuto da lontano, che aveva saputo dare voce a quella che sarebbe in seguito diventata l'anima del movimento che avrebbe portato alla definitiva cancellazione dell'apartheid.
In Sud Africa Robert Kennedy tenne cinque discorsi, in cinque università diverse, sempre davanti ad un pubblico fatto esclusivamente di bianchi. Quella che segue è una sintesi di due dei cinque discorsi: il primo, tenuto a Cape Town, e l'ultimo, tenuto due giorni dopo a Johannesburg. Questo video ritrae l'introduzione di Kennedy al suo primo discorso (vedi testo a seguire).
Dal discorso di Cape Town, 6 giugno 1966
Sono qui, questa sera, a causa del profondo interesse ed affetto che provo per una terra che fu colonizzata dagli olandesi a metà del 17º secolo, che fu poi presa in mano dai britannici, e che divenne finalmente indipendente. [...]
Una terra dove gli abitanti locali furono inizialmente sottomessi, e con i quali le relazioni rimangono problematiche a tutt'oggi; una terra che si è definita su una frontiera ostile; una terra che ha saputo mettere sotto controllo le sue grandi risorse naturali grazie ad una intensa applicazione delle tecnologie moderne; una terra che una volta importava schiavi, e che oggi fatica a cancellare le ultime tracce di quella forma di schiavitù. Sto parlando, naturalmente, degli Stati Uniti d'America.
[Nota: con questo piccolo "inganno retorico" Robert Kennedy riuscì a strappare un applauso e a conquistarsi immediatamente la simpatia del pubblico.]
Questo è il "Giorno della Conferma", una celebrazione della libertà. Oggi noi siamo qui nel nome della libertà. Al cuore del concetto occidentale di libertà e democrazia sta la convinzione che l'individuo, il figlio di Dio, sia il centro di tutti i valori, e che ogni società, gruppo o stato, esistano a suo beneficio. Ne consegue che un allargamento della libertà per ciascun essere umano debba essere lo scopo supremo e la pratica quotidiana di una qualunque società occidentale.
Il primo elemento alla base di questa libertà individuale è la libertà di parola: il diritto di esprimere e comunicare idee, che ci separa dalla stupidità delle bestie delle praterie e delle foreste; il diritto di richiamare i governi ai loro doveri e ai loro obblighi; e soprattutto, il diritto di affermare la propria appartenenza a quell'insieme politico - a quella società di uomini - con i quali condividiamo la nostra terra, il nostro passato ed il futuro dei nostri figli.
A braccetto con la libertà di parola va il diritto di essere ascoltati, di contribuire alle decisioni dei governi da cui dipendono le nostre vite. Tutto ciò che rende la vita di un uomo degna di essere vissuta - la famiglia, il lavoro, l'educazione, un posto dove allevare i propri figli e dove riposare la propria mente - tutto ciò dipende dalle decisioni dei governi, e tutto ciò può essere spazzato via in un solo istante, da un governo che non tenga presenti le necessità della propria popolazione. L'essenza ultima dell'essere umano può quindi essere protetta e preservata solo laddove il governo si faccia carico non solo delle necessità dei ricchi, non solo di quelle di coloro che appartengono ad una particolare religione, o ad una particolare razza, ma delle necessità di tutta la sua gente.
Questi sono i diritti sacri di una società occidentale, e queste erano le differenze fondamentali fra noi e la Germania nazista, esattamente come lo furono fra Atene e la Persia.
Questi diritti rappresentano l'essenza delle nostre differenze con il comunismo di oggi. [Nota: in Sud Africa, in quel periodo, tutti gli oppositori al regime venivano sistematicamente definiti "comunisti", esattamente com'era accaduto negli Stati Uniti nel periodo del maccartismo].
Io sono irrevocabilmente contrario ia comunismo, perché mette lo Stato al di sopra dell'individuo e della sua famiglia, e perché non permette la libertà di parola, di protesta, di religione e di stampa, cosa che è caratteristica di tutti gli stati totalitari. La strada per opporsi al comunismo però non è quella di imitare la sua forma dittatoriale, ma di allargare le libertà individuali, nei nostri paesi come in tutto il mondo.
C'è gente in ogni parte del mondo che etichetta come "comunista" una qualunque minaccia ai propri privilegi. Ma, come ho potuto vedere nei miei viaggi attraverso il mondo, il processo di riforma non è comunismo. Mentre la negazione della libertà, nel nome di qualunque cosa essa avvenga, non fa che rafforzare proprio quel comunismo che dice di voler combattere.
[...]
Negli ultimi cinque anni noi [negli Stati Uniti] abbiamo fatto di più per garantire l'eguaglianza ai nostri cittadini neri, e per aiutare i più poveri - sia bianchi che neri - di quanto sia stato fatto negli ultimi 100 anni. Ma rimane ancora molta strada da percorrere.
Ci sono infatti milioni di neri che non sono addestrati per svolgere i lavori più semplici, e a migliaia di loro vengono comunque negati i diritti che sono stabiliti dalla legge. Mentre la violenza degli abbandonati, dei maltrattati e degli offesi getta la sua ombra sinistra sulle strade di Harlem, di Watts e di South Chicago.
Certe persone temono che il cambiamento cancellerà i diritti di una minoranza, particolarmente laddove la minoranza è di razza diversa dalla maggioranza [nota: in quel periodo, in Sudafrica, 4 milioni di bianchi controllavano la vita di 25 milioni di neri]. Noi negli Stati Uniti crediamo alla protezione delle minoranze, e riconosciamo il contributo alla leadership che esse possono dare. Ma non crediamo che un solo essere umano - che appartenga ad una minoranza oppure ad una maggioranza - possa mai essere sacrificato sull'altare di una qualunque teoria o strategia politica.
Non tutte le nazioni crescono nello stesso modo e con lo stesso ritmo, e non sempre le soluzioni che sono valide negli Stati Uniti possono essere imposte o trapiantate in altri paesi. Ciò che è importante è che tutte le nazioni marcino comunque verso una maggiore libertà, verso la giustizia per tutti, verso una società sufficientemente forte e flessibile da poter andare incontro alle necessità di tutta la sua gente, in un mondo che sta cambiando rapidamente sotto i nostri occhi.
Nell'arco di poche ore l'aereo che mi ha portato qui ha attraversato oceani e paesi che sono stati il crocevia della storia umana. In pochi minuti abbiamo ripercorso le migrazioni dell'uomo nel corso di migliaia di anni. In pochissimi secondi abbiamo sorvolato campi di battaglia sui quali milioni di esseri umani hanno sofferto e sono morti. Dall'aereo però non si vedeva nessun confine nazionale, e non c'erano alte muraglie a dividere un popolo dall'altro; si vedevano solo la natura e l'opera dell'uomo - case, industrie e fattorie - che riflettevano dovunque lo sforzo comune dell'umanità per migliorare la propria vita.
Ogni nazione incontra ostacoli diversi e persegue obbiettivi diversi, che vengono definiti dal proprio passato e dalla propria esperienza. Eppure, quando io parlo ai giovani di ogni parte del mondo, resto colpito non dalla loro diversità ma dalla somiglianza dei loro obiettivi, dei loro desideri, delle loro preoccupazioni e delle loro speranze per il futuro.
C'è discriminazione razziale a New York, c'è ineguaglianza razziale nell'apartheid in Sudafrica, e c'è la schiavitù dell'uomo sulle montagne del Perù. C'è gente che muore di fame nelle strade dell'India, c'è un ex-primo ministro che viene giustiziato sommariamente in Congo, ci sono intellettuali che finiscono in prigione in Russia, e migliaia di persone vengono massacrate in Indonesia; nel frattempo, montagne di denaro si riversano sull'acquisto di armamenti in ogni parte del mondo.
Questi sono tutti mali differenti, ma sono tutti il risultato dell'azione umana. Essi riflettono l'imperfezione della giustizia umana, l'inadeguatezza della compassione umana, la mancanza di sensibilità verso le sofferenze dei nostri simili; essi segnano il limite delle nostre capacità di utilizzare la conoscenza per il benessere di tutti gli esseri umani nel mondo. Per questo motivo, tutti questi mali risvegliano le caratteristiche comuni della coscienza e dell'indignazione, ed una condivisa determinazione a cancellare per sempre le inutili sofferenze degli altri esseri umani, sia a casa nostra come nel resto del mondo.
Sono queste le qualità che rendono la gioventù di oggi l'unica vera comunità internazionale.
[...]
Dal discorso di Johannesburg, 8 giugno 1966
[...]
Sono rimasto particolarmente colpito dalla gioventù del Sud Africa. Non solo da quelli che sono giovani di età, ma anche da coloro di ogni età che sono pervasi da un grande spirito di immaginazione, di coraggio, e da un grande appetito per l'avventura della vita.
Questi giovani, come i giovani del mio paese e quelli di tutto il mondo, desiderano costruire un futuro migliore, e desiderano lasciare il loro segno sulle pagine della storia. Ecco perché la vostra opera è così importante: perché gli uomini accorreranno al richiamo di ciò che è coraggioso e di ciò che è giusto.
Ma quale è esattamente la battaglia a cui siamo chiamati?
La prima è la battaglia per il futuro. Sono finiti giorni in cui una nazione poteva nascondersi dietro a muraglie di pietra, a cortine di ferro oppure di bambù. Il vento della libertà, del progresso e della giustizia soffia oggi su ogni altipiano e si infila nelle 1000 fessure delle sue rocce, trasportato dagli aeroplani, dalle comunicazioni via satellite e dalla stessa aria che tutti respiriamo.
Il Sud Africa di domani sarà diverso da quello di oggi, esattamente come l'America di domani sarà diversa dalla nazione ha lasciato qualche giorno fa. Ma noi non dobbiamo chiederci se il cambiamento verrà; dobbiamo piuttosto chiederci se potremo guidare quel cambiamento per metterlo al servizio dei nostri ideali e verso un ordine sociale che sia adeguato alle necessità di tutte le nostre genti. Non potremo mai controllare quel cambiamento attraverso la forza e la paura, ma soltanto attraverso la libera opera di una mente tollerante, che sia aperta alle nuove conoscenze, in modo da poter rafforzare il più fragile e più poderoso dono dell'essere umano, il dono della ragione.
Coloro che invece si escludono dalle nuove idee e dal pubblico confronto, non soltanto mostrano una grande paura ed incertezza del loro punto di vista, ma si garantiscono che il cambiamento, quando avverrà, non sarà di loro gradimento. E così costoro incoraggeranno le forze della violenza, che sono l'unica alternativa alla ragione di una mente aperta al desiderio di giustizia.
E' proprio la giustizia la seconda battaglia che siamo chiamati a combattere. Nessuno deve commettere l'errore di credere di combattere questa battaglia per gli altri. La combatte per se stesso, e così dobbiamo fare tutti. Ciò che ci insegnano i tempi moderni è che la crudeltà è contagiosa, e che la malattia che sprigiona non conosce limiti di razza o di nazione.
Ma la libertà non è come il denaro, che si può aumentare prendendo semplicemente quello degli altri. La libertà può aumentare solo se crescono e vengono assicurate le libertà di tutti gli altri esseri umani. Mentre colui che mette gli altri in schiavitù finisce per mettere in schiavitù anche se stesso: le catene infatti hanno due estremi, e colui che regge la catena vi rimane attaccato tanto fortemente quanto la persona che egli ha incatenato.
C'è chi sostiene che il gioco non vale la candela, dice che l'Africa è troppo primitiva per svilupparsi, che le sue genti non sono pronte alla libertà e all'autodeterminazione, e che la violenza e il caos siano inevitabili. Chi dice queste cose dovrebbe gettare uno sguardo sulla storia dell'umanità: non è stato certo l'uomo nero dell'Africa ad inventare i gas velenosi o la bomba atomica, a mandare 6 milioni di uomini donne e bambini alle camere a gas, e ad usare poi i loro corpi come fertilizzanti. Hitler, Stalin e Tojo non erano certo uomini neri dell'Africa, e non sono stati i neri africani a bombardare e distruggere Rotterdam, Shanghai, Dresda o Hiroshima.
Tutti noi vorremmo superare le crudeltà e le follie dell'umanità, ma questa battaglia non si potrà vincere puntando semplicemente il dito contro gli altri. Si potrà vincerla solo con le nostre azioni, compiute da uomini che dedicheranno tutte le loro facoltà fisiche e mentali all'educazione, al miglioramento e all'aiuto dei loro simili.
Ed è questo il terzo aspetto della nostra battaglia: dobbiamo saper combattere per noi stessi, come individui, per l'individualità di tutti gli esseri umani.
Un grande scrittore americano, Mark Twain, una volta ha detto: "Che cos'è una nazione? È la voce comune di tutto il suo popolo." Ciascuno deve parlare, da solo e sotto la propria responsabilità. Ciascuno da solo deve decidere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa è patriottico e cosa no. Altrimenti sarà considerato un traditore, sia di se stesso che del proprio paese.
E' questa la più pesante responsabilità di tutte: un peso che spesso gli uomini si sono rifiutati di portare, demandando il governo, l'ideologia, le convinzioni ed i poteri alla forza dello stato. La storia è piena di gente che ha trovato molto più facile combattere invece di pensare; più facile lasciare che fossero le autorità a scegliere i nostri nemici e i nostri amici, invece di farlo noi stessi; più facile seguire ciecamente invece di condurre, anche se questo avesse comportato la scelta di un solo individuo, che agisse liberamente nel pieno possesso del suo pensiero critico.
Oggi dirò a voi quello che il presidente Kennedy disse una volta ai giovani americani: "Siete voi che dovete decidere, siete voi quelli che debbono preoccuparsi di trovare la verità, perchè siete voi quelli che hanno meno legami di tutti con il nostro presente, e più legami di tutti con il vostro futuro".
Oggi fra di voi, in questa grande università, io credo di conoscere quella che sarà la vostra decisione.
Robert Fitzgerald Kennedy
Traduzione di Massimo Mazzucco per luogocomune.net
http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=4376
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