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LA STELE DI RAIMONDI
Un Oopart nell'antico Perù precolombiano
LA STELE DI RAIMONDI
Un Oopart nell'antico Perù precolombiano
Articolo scritto da -il
Pensatore-, 01.05.2014
Premessa
Considero l’archeologia
accademica, così come viene insegnata nelle università e poi divulgata al
pubblico, una grande truffa allorché essa verte su periodi storici anteriori al
cosiddetto periodo classico che si fonda su Grecia e Roma antiche. Ciò si fa
ancora più eclatante quando l’argomento si basa su civiltà nate e sviluppatesi
al di fuori del contesto europeo. Le
evidenze archeologiche (cioè i reperti e le fonti documentali coeve) possono
essere datate con verosimiglianza quando riguardano periodi abbastanza vicini a
noi, poiché siamo in grado di osservare un’evoluzione culturale e tecnologica
che da quei suddetti periodi arriva, grazie ai documenti scritti, alle rappresentazioni
grafiche ed alle innovazioni tecnologiche, sino a noi senza evidenti (ma solo
all’apparenza) salti qualitativi. Per esempio,
la sublime valenza artistica dei bronzi di Riace è assolutamente pertinente al
periodo più sfarzoso della Grecia antica, quando operavano artisti quali Fidia,
Policleto e Prassitele; è altrettanto assodata in quell’epoca l’elevata
maestria ellenica1 nella tecnologia della fusione dei metalli. Poi
tale afflato artistico e l’abilità manuale sono stati trasmessi a Roma imperiale
e da questa arricchiti. Venuti poi a cadere quei patrimoni di conoscenza,
abilità e cristallinità di vedute
nell’ambito del successivo Medio Evo (fino a Nicola Pisano: questo genio
poliedrico per me è uno spartiacque epocale), gli artisti europei epigoni di quel
passato splendore si sono trovati incapaci di assurgere ai livelli dei loro
antichi ispiratori e lontani mentori. Anche in ciò essi erano figli del loro
tempo crudele, bigotto, asfittico e tutt’altro che ecumenico. Ciò si può anche
vedere nel ritardo con il quale la
maestosità di edifici quali il Partenone, il Pantheon e le basiliche imperiali, solo per fare qualche esempio,
venne prima eguagliata e poi in qualche caso superata dalle cattedrali gotiche;
ovverosia: dopo la caduta di Roma gli scultori ed architetti europei pur non
partendo da zero in realtà si trovarono, all’atto pratico, quasi ad
improvvisare. Ciò vuol dire che, ai tempi di Carlo Magno la costruzione del
mausoleo di Alicarnasso2 e la produzione del discobolo di Mirone
erano in realtà impossibili, essi sarebbero stati degli OOPART, cioè degli Out
of Place Artifacts, denominazione che possiamo tranquillamente tradurre in
italiano come –oggetti fuori posto-. Tutto ciò nonostante, ripeto, la civiltà
europea avesse, parcheggiate nel dimenticatoio, tutte le conoscenze e
competenze per continuare su quella fulgida strada: semplicemente la caduta del
mondo romano aveva segnato uno iato epocale, le sue idealità erano andate quasi
distrutte. Ma se questa impossibilità è vera in un periodo di decadenza, che
segue un altro che invece fu di splendore, è ancora più vera ed oppressiva nell’ambito di
una civiltà che nel suo passato (cioè le culture del cosiddetto Formativo Inicial
) non ha avuto e nel suo presente (per l’appunto
il periodo Chavín) non ha né la tecnologia congrua e né la
maestria gestuale; così come nel suo futuro (l’apoteosi del periodo incaico)
non vi è alcun segno che eguagli quella sublimità raggiunta in un particolare e
fantomatico intermezzo (il monolito che vedremo in seguito), secondo i dettami capziosi
dell’archeologia universitaria; mi sto
riferendo al susseguirsi di civiltà dell’antico Perù sino all’arrivo dei conquistadores, in particolare alla
cosiddetta Chavín de Huantar.
Questa può sembrare una asserzione retorica, ma in realtà riflette la
situazione di una quantità enorme di conoscenze e reperti delle civiltà lontane
da noi nel tempo e nella distanza, per esempio le piramidi di Giza, le
competenze astronomiche dei Maya, le mura ciclopiche di Sacsayuhaman a Cuzco, il Trilithon
di Baalbek in Libano (solo per citare qualche esempio). Tutte queste sono
evidenze archeologiche sotto gli occhi di chiunque ma che il fariseismo degli
studiosi ufficiali perverte, deforma e disloca temporalmente a suo uso e
consumo. In questo articolo, per ovvie ragioni di brevità, mancanza di risorse
pecuniarie per recarmi ovunque abbia sentito la necessità, ma soprattutto per
simpatia personale verso l’argomento, mi soffermo su un elemento appartenente
al mondo precolombiano, addirittura al periodo preincaico di quell’enorme
territorio che è stato conosciuto nella sua apoteosi col nome di Tahuantinsuyo, cioè l’-Impero dei
Quattro Angoli del Mondo-, nome esatto dell’impero amerindio con capitale la
città di Cuzco, che in lingua quechua3
significa –Ombelico del Mondo-. Sto parlando della cosiddetta Stele di Raimondi,
manufatto unico e misconosciuto.
Foto I - Antonio Raimondi
e la parte alta della statua a lui ispirata, sita nella piazza limeña che non
poteva che chiamarsi Plaza Italia
Antonio Raimondi 4,
chi era costui? Sì, fu un altro dei tanti carneadi della nostra storia: uno di
coloro che hanno fatto per il prossimo e per i posteri assai più di quanto
molti tra noi possano riuscire a fare, ma che mai godranno della fama di Piero
Angela. E’ stato prima un patriota sulle
barricate milanesi tra il 18 e il 22 marzo 1848 e poi, a causa della
vittoria finale austriaca, un esule nel Nuovo Mondo, ove arrivò privo di mezzi ma
ricco d’ingegno; il Perù divenne la sua nuova casa. La nazione che allora
incontrò stava ancora consolidando la propria indipendenza e la propria identità
dopo essere stata, grazie alla città di Lima edificata tre secoli prima da Francisco
Pizarro, la culla del vicereame ispanico nell’America del Sud. Egli fu uno dei
primi docenti stranieri dell’università di Lima e tra i fondatori della facoltà
di medicina, ma soprattutto fu il primo esploratore moderno di quei luoghi, che
percorse in ogni senso gli fu possibile. Talentuoso disegnatore, ha lasciato
migliaia di rappresentazioni di piante, paesaggi e manufatti precolombiani. E’
stato un Indiana Jones che è esistito
per davvero, ma con le mani monde del sangue del suo prossimo. Quando il
giovane ufficiale dell’esercito peruviano Leoncio Prado5, figlio
dell’allora presidente costituzionale del Perù Mariano Ignacio Prado, si perse durante una missione esplorativa
condotta da un plotone di soldati nella giungla amazzonica, Raimondi, assistito
da alcune guide native, fu in grado di ritrovarlo e di riportarlo alla civiltà
sano e salvo. Non risulta che amasse le armi da fuoco, ma diventò abilissimo
nell’uso del machete per aprirsi il
varco nell’intrico della foresta pluviale. Quando la città di Lima, alla fine
della guerra del Pacifico Sud, venne occupata nel gennaio del 1881 dai soldati
cileni, egli espose al balcone di casa sua il tricolore sabaudo e durante il
lungo periodo dell’occupazione decine persone, di ogni sesso ed età, passarono
di lì sottraendosi agli abusi della soldataglia nemica. Tale era il suo
prestigio che de facto quella grande e vecchia dimora divenne un territorio
tutelato dall’immunità diplomatica. Oggigiorno due tra i migliori istituti
scolastici di quel Paese portano il suo nome.
La scoperta
Nel 1860, Raimondi si trovava nel
vasto sito archeologico attualmente noto col nome di Chavín
de Huantar 6
e fu avvicinato da un contadino nativo, tale Timoteo Espinoza, che lo
interloquì in quechua,
lingua che il nostro ormai parlava fluentemente; all’incirca il
campesino gli disse: ”Straniero, so che cerchi cose antiche, sicché
vuoi vedere qualcosa di veramente unico?”. Così avviene in un modo
quasi parodistico una delle scoperte più importanti della storia
dell’archeologia americana: sotto gli occhi stupiti dell’italiano,
la grande lastra di pietra, usata come mensa da pranzo in casa di
Espinoza, si rivela in realtà una stele magnifica finemente ed
intricatamene lavorata. Queste sono le sue dimensioni, altezza cm
198, larghezza cm 74, spessore cm 17. Essa raffigura il cosiddetto
Dios de Los Dos
Baculos, cioè
il –Dio con i due bastoni-. Nonostante la sua manifesta importanza,
tale reperto rimase nel dimenticatoio per tredici anni, poi,
finalmente, il presidente José Balta ne ordinò la traslazione nella
capitale. Ma le vicissitudini non erano finite: durante il saccheggio
perpetrato dalla soldataglia cilena durante i primi mesi del 18817
ai danni di tutto il patrimonio culturale peruviano, la stele, ancora
drappeggiata in una pesante coperta, venne urtata da coloro che
saccheggiavano il Museo
de Historia e
cadde rovinosamente lungo una scala rompendosi in due pezzi; quando
la teppa guardò ciò che giaceva ai propri piedi ne vide solo il
retro completamente liscio e non diede ulteriore importanza, così la
stele di Raimondi è rimasta fortunosamente nel suo Perù. Nel 1940,
essa subisce un altro colpo ma con minime conseguenze: il grande
terremoto di quell’anno procura la rottura di alcune parti della
cornice.
La stele
Foto II:
l’originale
Foto III : trasposizione grafica con una migliore risoluzione
Foto IV: grazie a questa
comparazione, si può vedere che le
figure centrali, capovolgendo la stele, hanno un’altra espressione
Nell’agosto del 2001 ho
potuto vedere direttamente questo capolavoro nel Museo Nacional de Arqueología Antropología e Historia del Perú, che
i limeños chiamano orgogliosamente e
semplicemente El Museo de la Nación . Grazie al
fatto che in quei giorni partecipavo agli scavi nella Huaca Puclliana8, sita ormai nell’attuale contesto
urbano di Lima, mi venne permesso di avvicinarmi ed effettuare alcune
misurazioni purtroppo sommarie e che non mi soddisfecero del tutto: non mi fu
permesso di appoggiare sulla superficie della stele né il calibro centesimale
né il flessometro. Inoltre, dato che all’epoca la direzione del museo stava
preparando una nuova edizione patinata del catalogo, mi si negò il permesso di scattare foto ad un
qualsivoglia reperto del museo e soprattutto alla stele; almeno, mi fu permesso
di toccarla a mani nude e questo, per l’epoca, fu una vera concessione;
evidentemente, in questi ultimi anni, visto che vi sono diverse sue foto
disponibili in Rete, qualcosa è cambiato nella direzione del museo. Il protagonista
dell’opera è letteralmente un nano di circa 90 cm, con la testa coperta da un
elmo integrale che raffigura un grande felino, probabilmente un giaguaro o un
puma. Tale casco/maschera è sormontato da una serie di complicate elaborazioni
di elementi felidi e serpentiformi che si alternano gli uni agli altri,
soprattutto teste di serpente. Capovolgendo la foto l’espressione dei vari
personaggi cambia, la sensazione è il passaggio dalla minaccia all’allegria.
Questa tecnica, che nella stele di Raimondi è complessa sino al parossismo,
viene definita dal prof. N. J. Wade9 come Binocular Rivalry (oppure,
Contour Rivalry), che in italiano possiamo tradurre come –rivalità
binoculare-. In breve, tale fenomeno designa l’effetto della percezione visiva
di differenti immagini contigue ed alternate, mostrate allo stesso tempo ad
ambedue gli occhi; il primo studioso a prendere coscienza di questo fenomeno
assai intrigante fu, sempre secondo Wade, il matematico e fisico napoletano
Giambattista della Porta (ma soprattutto alchimista!), l’argomento viene
trattato per la prima volta nella storia nel suo libro De Refactione Optces, 1589.
Adesso vi esorto a
guardare attentamente le foto della stele: tecnicamente parlando, essa presenta
aree maggiormente scavate all’esterno della figura (cioè lungo i suoi contorni),
questo espediente permette alla figura quasi di emergere dalla cornice, di
avere un effetto tridimensionale, invece i lineamenti del nano e delle
molteplici figure, cioè i segni nella parte interna, sono meno profondi; le parti esterne hanno una profondità
coerente di circa 3 cm (non superiore comunque al mezzo cm) e l’angolo di 90° è rispettato nell’ambito di
tutto il relativo perimetro. Invece, le linee (possiamo chiamarle senz’altro incisioni
continue, piuttosto che graffiti superficiali) che formano i lineamenti hanno
una profondità coerente di circa 3 mm per una pari larghezza. Le narici e gli occhi
(tranne gli occhi del nano) hanno una profondità pari alle zone scavate dei
contorni esterni, anche qui viene rispettato l’angolo di 90°. Al tatto la
superficie della figura interna risulta levigata quasi a specchio, essa è
interrotta solo dai lineamenti e dalla spaccatura diagonale (il triste ricordo
del 1881) immediatamente sopra l’elmo/maschera. Anche il fondo delle asportazioni
di contorno è altamente levigato: i polpastrelli non riescono a percepire eventuali
grossolanità; stesso discorso per i lati e la faccia posteriore, la quale è
completamente priva di incisioni. Il
personaggio è racchiuso da una cornice laterale
spessa circa 3 cm; tale spessore
viene mantenuto per tutto il perimetro della stele. Tutte le differenti
misure: profondità, larghezza, rettilineità, curve, angoli, sono quasi sempre
consistenti (cioè non vi sono deviazioni, gli errori sono appena percettibili:
qui uso il termine- consistente- proprio nella sua accezione britannica); la
ripetizione dei disegni è precisa. Ove ciò non accade ho ritenuto di
riscontrarvi, in primo luogo, l’effetto delle intemperie e delle vicissitudini dei
millenni, più che lo sbaglio dell’autore. L’esecuzione sembra essere stata
effettuata appoggiando sulla superficie della lastra un foglio di carta
millimetrata, sulla quale è stata disegnata prima una metà e poi specularmente
anche la successiva. Antonio Raimondi scrisse, tra l’altro, a tal riguardo
nella relazione inviata al governo di Lima:
“Detta pietra è degna di
gran stima per il complicato e raffinato disegno, per la sorprendente e precisa
simmetria, che si nota in un lavoro tanto difficile che il migliore artista non
lo avrebbe potuto superare in perfezione”. 10
Oltre un secolo dopo, nel
capolavoro della sua maturità Historical
Atlas od World Mythology, il prof. Joseph Campbell11 arriva a
parlare di lavoro di cesello in contrapposizione al quesito sulle modalità
della sua lavorazione; inoltre, dato che Campbell fu anche uno studioso
approfondito (e probabile praticante) di esoterismo, egli, nella suddetta
pubblicazione, ritiene di scoprirvi in filigrana addirittura il quarto chakra dell’induismo, quello del cuore,
denominato Anahata, che in questo
caso simbolizza l’unione del mondo dell’immanenza e quello della trascendenza.
La datazione
A questo punto viene
obbligatorio chiedersi a quale periodo della storia dell’umanità appartenga
questo straordinario manufatto: ebbene, la storiografia ufficiale lo
attribuisce alla cultura Chavín, esistita
in Perù tra il 1200 a.C ed il 200 a.C. Il
suo centro nevralgico è proprio da identificarsi nel sito Chavín de Huántar ,Valle
Conchucos (3.180 m sul livello del mare); attuale provincia di Huari, dipartimento di Ancasch, circa 462 km al Nord-Ovest di
Lima. L’etimolgia della denominazione Chavín
de Huántar è oscura12 e la lingua di origine è il quechua, comunque probabilmente più
recente del periodo in questione; dunque non è affatto certo che fosse davvero
il nome con il quale i nativi di quel tempo definissero la propria nazione.
Generalmente, essa viene riconosciuta come la più importante fase pre-incaica,
seppur ancora costellata più da lacune ed interrogativi che da certezze. La
datazione della messa in opera della stele che riscuote maggior consenso è avanzata dallo stesso
Campbell, cioè intorno al 900 a.C.. Però, dichiarando questo la storiografia ufficiale nello stesso tempo si
trova avviluppata in una contraddizione enorme: perché? Semplice. Gli spagnoli,
quando affrontano e distruggono le grandi civiltà precolombiane, hanno la
fortuna di imbattersi in nemici che non possono difendersi con le proverbiali
–armi pari-. Aztechi, Maya, ed Inca hanno una metallurgia primordiale, infima:
non conoscono né il ferro e né l’acciaio; in America del Sud, i primi tentativi di
fusione per ottenere il bronzo (lega prodotta unendo rame e stagno) si suppone
che siano avvenuti solo dopo il IX secolo dopo Cristo (tanto per intenderci,
in Europa a quel tempo c’era Carlo Magno). Comunque, sempre secondo la
storiografia ufficiale, la metallurgia ha sempre rappresentato una voce minore dell’economia
di quel tempo
Il materiale
Almeno, tutto ciò è vero secondo
il verbo dell’ufficialità universitaria. Oro, argento, e rame sono metalli
malleabili e per tale motivo, nell’ambito del progresso dell’umanità, hanno
ceduto il passo a quelli più duri e resistenti, allo scopo di creare utensili più robusti per lavori di ogni tipo.
Per quanto più resistente del solo rame, il bronzo rimane fragile e per
sopperire a ciò è necessario che venga usato in gran quantità per ciascun
manufatto; per esempio, si vedano le statue, le campane ed i cannoni antichi. I
cosiddetti Chavín non conoscevano
nemmeno il bronzo ma hanno avuto l’abilità di creare questo gioiello, lavorando
un enorme blocco di granito ed usando perfino strumenti ridicoli: ciò non può
essere accaduto! Vediamo perché. Il
granito è una roccia d’origine magmatica che, tecnicamente parlando, viene
definita durissima; nella scala di Friedrich Mohs13
alcune tipologie di granito hanno un livello di durezza di 6 mentre altre
hanno il 7. Tanto per intenderci, il
marmo ha un livello tra il 3 ed il 4 mentre il diamante è al top con il livello
10. L’utilità empirica della scala Mohs
è data dal seguente criterio: ogni elemento è in grado di scalfire quello che
lo precede (cioè quelli di livello più basso) ma non viceversa.
Scala di
Mohs
- Teneri (si scalfiscono con l'unghia)
- 1. Talco
- 2. Gesso
- Semi duri (si rigano con una punta d'acciaio)
- 3. Calcite
- 4. Fluorite
- 5. Apatite
- Duri (non si rigano con la punta di acciaio)
- 6. Ortoclasio
- 7. Quarzo
- 8. Topazio
- 9. Corindone
- 10. Diamante
Ma qui bisogna sottolineare
una novità: quasi fino ad oggi, in riferimento a questa stele si è sempre
parlato di granito in senso lato: invece, nel 2009, il prof. Gorge Rapp14, geologo
dell’università del Minnesota, identifica precisamente nella diorite il
materiale che la compone. Senza cadere nella disquisizione se la diorite sia
una roccia di tipo granitico oppure un genere a parte, ciò significa che la sua
durezza tende più verso il livello 8 che al 7 propriamente detto. Le prime
opere scultoree che rappresentano alla perfezione il corpo umano, come ho già
detto, appartengono alla Grecia classica, allorché artisti incommensurabili
avevano a disposizione utensili congrui in ferro, forse anche acciaio
(scalpelli, martelli, cunei, lime etc.), per lavorare un materiale non duro
e non resistente quale il marmo, però
mai si sono azzardati ad affrontare cimenti simili col granito. E’ vero che
tale pietra è stata usata anche nell’antichità remota, per esempio in Egitto ed
in Mesopotamia, ma mai per produrre oggetti raffinati in cui la precisione
della lavorazione era indispensabile per riprodurre lineamenti e
tridimensionalità; il granito era di norma utilizzato per la pavimentazione, la
costruzione di colonnati e pareti divisorie, i tentativi di realizzare statue
hanno dato risultati grossolani e sommari pur se di elevatissimo valore
artistico. E se fosse stato possibile altrimenti i grandi artisti del canone
greco lo avrebbero utilizzato senz’altro.
La lavorazione
Le rocce granitiche (e
simili, compresa quindi la diorite) sono altamente resistenti ad ogni tipo di
attrito, alle alte temperature ed agli acidi. Per riuscire a tagliare pezzi di
granito che fossero delle lastre con un perimetro formato davvero da angoli
retti, cioè dei parallelepipedi perfetti, si è dovuto aspettare l’invenzione
del cavo elicoidale a fili intrecciati d’acciaio con schegge di diamante su
puleggia battente, risalente alla fine del 1800. Per affinare ulteriormente il
processo lavorativo il carrarese Luigi
Madrigali15 ha inventato trent’anni fa il filo d’acciaio con
cilindri d’acciaio alternati a globuli di diamanti sintetici su supporto
rotante. Soprattutto, oggigiorno per ottenere incisioni, asportazioni precise pari ai lineamenti della
figura nella stele di Raimondi si usano trapani battenti con punte diamantate
aventi spessore di pochi millimetri (oppure strumenti al laser di tipo
militare); nessuno si sogna di usare martello e scalpello perché siffatta
precisione è inarrivabile con simili mezzi. Per fare un esempio ironico, un’ascia
da boscaiolo non è adatta per tagliare una bella, sottile e rotonda fetta di
mortadella. Per ogni fine che implichi precisione e raffinatezza bisogna
mettere in atto delle modalità congrue altrimenti si fallisce. Vi farò altri
esempi: i bisturi del chirurgo e i
coltelli del macellaio sono tutti strumenti affilatissimi, ma un qualsivoglia
chirurgo mai userà i secondi per operare sul pancreas. La potenza dell’energia cinetica erogata dagli ordigni
esplosivi viene resa usando il chilotone, un chilotone è pari all’esplosione di
una massa compatta di mille tonnellate di tritolo. La bomba Little
Boy, sganciata su Hiroshima il 6 agosto del 1945 (8:15 ora locale) era pari
a circa 16 chilotoni; prima ancora, tra il 13 ed il 14 febbraio del 1945,
nell’arco di meno di ventiquattro ore, la città tedesca di Dresda si vide
seppellita da 3.900 tonnellate di bombe convenzionali sganciate dai liberatori;
insomma, si può far esplodere tutto il tritolo che si vuole: ma per
ottenere l’irraggiamento
radioattivo la condicio sine qua non è la fissione nucleare di uranio 235 o di plutonio
239 altamente concentrati. L’umanità per autodistruggersi ha usato gli
esplosivi fin dal medioevo, ma per arrivare al salto di qualità del fungo
atomico si è dovuto aspettare che, nel -Progetto Manhattan-, il genio di Oppenheimer avesse a disposizione la
tecnologia congrua e più elevata. Procedendo con questo discorso, l’ammontare
della pressione in kg per cm2, esercitata allo scopo di
ottenere la complessa figura della stele, con gli inadatti utensili propri di
tutte le civiltà precolombiane poteva portare o alla distruzione degli stessi
oppure alla spaccatura irregolare del
blocco, fors’anche ad ambedue gli effetti. Data l’impossibilità odierna di
trovare in commercio un sega in rame (pertinente all’epoca presunta della
fabbricazione della stele) di almeno 150 cm di lunghezza (attenzione, seghe di
tal fatta mai sono state trovate in alcun sito archeologico, né in assoluto di
qualsivoglia dimensione nel Nuovo Mondo), caro lettore, ti esorto a comprare
una moderna sega in un qualsiasi negozio di ferramenta: prova a tagliare
una semplice pietra di diorite (si trova nei negozi di geologia e mineralogia),
dopo averla messa in una morsa, vedrai i denti dell’utensile grattare
inutilmente prima, per poi surriscaldarsi e piegarsi perdendo il filo; magari prova
in compagnia di un amico, voglio dire: tu ad un capo e l’altra persona
all’altro della sega, così svilupperete maggiore velocità e attrito sulla
diorite… e potrete rovinare prima la
sega e risparmiare tempo anziché fare esperimenti inutili. L’intento potrà solo
ottenere un taglio assai slabbrato al suo inizio e grossolanamente ondulato
lungo la sua lunghezza; data la durezza di quella particolare pietra è
assolutamente impossibile ottenere un taglio pulito e perfettamente
perpendicolare con un normale utensile manuale moderno, pur se in acciaio al carbonio altamente
temprato come sono le seghe che troviamo presso il nostro centro commerciale di
fiducia; l’attrito fa aumentare esponenzialmente il calore vulnerando la stessa
compattezza molecolare della lama, anche gli eventuali raffreddamenti con acqua
sottoporrebbero comunque l’attrezzo ad una successione di shock termici, mentre
la struttura della diorite rimane ineffabile. Oppure, compra una lastra già levigata di
granito o di diorite in un normale negozio di edilizia e prova a tracciare su
di essa incisioni sottili, lunghe, precise e profonde come quelle della nostra
stele, usando martello e scalpello e ti sentirai subito frustrato a morte;
sicché, magari, vorrai usare un trapano
con punta d’acciaio comprato presso un -Bricocenter -e ti arrabbierai ancora di
più; il passo successivo sarà spendere
un cifra dai 500 euro in su per comprare un veloce e potente trapano con
colonna più diverse punte diamantate ed al carburo di tugsteno, tra le più
sottili in commercio, e solo allora potrai ottenere un qualche successo! Stesso
discorso per ottenere quell’elevata levigatura (quasi a specchio): prova ad utilizzare su
quella superficie una pelle di squalo smeriglio, se sei così fortunato da
trovarla in commercio da qualche parte, oppure tenta con un mucchietto di normale sabbia tenuto nel palmo della mano; proprio
questi erano gli elementari mezzi su cui potevano contare popoli non ancora in
grado di forgiare le lime per la levigatura, lime comunque inadatte a levigare
a specchio materiale più duro del marmo. Qualora vogliate produrvi in un gioco
sull’orlo della pazzia, affrontate direttamente un enorme macigno informe di
diorite con tutti gli strumenti che riuscite a comprare presso il solito centro
commerciale, ma senza assolutamente rivolgervi ad un’industria specializzata, e
vedremo per quanti minuti riuscirete ad evitare di mandare tutto al diavolo…e
non si dimentichi che, per la farisaica scienza ufficiale, la metallurgia di
quell’epoca non andava oltre il rame! Assolutamente un altro discorso è la
lavorazione delle pietre calcare che,
essendo di natura sedimentaria, sono molto più friabili: ciò ha permesso la
loro utilizzazione anche da parte di popolazioni completamente prive di
metallurgia, mediante le cosiddette amigdale, cioè concrezioni minerarie
spontanee e facilmente reperibili in superficie, solitamente di forma ovale e
sufficientemente dure per scolpire e squadrare grossolanamente anche blocchi di
tufo.
Lo “schema delle età” e la balla (parziale) del ferro
meteorico
Il materiale di cui è
formato un manufatto è strettamente collegato agli strumenti necessari per la
sua lavorazione: adesso accompagnatemi nella vivisezione di uno dei dogmi che
ci accompagna fin dai bei tempi innocenti delle scuole elementari. E’ un
percorso obbligato per demolire un’impalcatura stantia che continua ad esistere
solo perché fa comodo, quindi è anche un pretesto per uno scopo più ampio. Agli
albori dell’illuminismo, in data 12.11.1734, innanzi ai suoi
colleghi parrucconi16 dell’ Académie
des inscriptions et belles-lettres, il gesuita ed archeologo
francese Nicolas Mahudel17 espone, tramite un lunga e dettagliata
dissertazione verbale, la sua teoria
dell’evoluzione della civiltà umana: è il famoso schema delle tre età, cioè
quella della pietra, del bronzo e del ferro.
Questa schematizzazione fu per ben sei anni rifiutata dall’illustre
consesso fino a che venne accettata nel 1740: semplice, pur senza attaccare
esplicitamente il racconto biblico nel –Genesi-, essa offriva una griglia
interpretativa alternativa ai dogmi del cattolicesimo. E’ elemento da
sottolineare: con un secolo d’anticipo su Charles Darwin, questo importante
però misconosciuto studioso individua un flusso evolutivo quasi costante nel
succedersi delle generazioni umane, che da una condizione pressoché miserabile
passa, grazie ad una graduale e vieppiù sofisticata manipolazione tecnologica,
ai livelli eccelsi dell’antichità greco-romana. Tale periodizzazione è stata
accettata sostanzialmente da tutti gli studiosi posteriori, soprattutto alla
luce del successivo grande consenso riscosso dalla teoria darwiniana
dell’evoluzione della specie. I problemi incominciarono quando, a fine del 1800
si aprì l’epoca delle grandi spedizioni archeologiche, condotte dai più famosi
orientalisti tedeschi e britannici nel vicino Oriente. Già qualche
ingrippamento lo aveva causato Heinrich Schliemann tra il 1873 ed il
1890, soprattutto con la scoperta di Troia, ma anche con gli scavi a Tirinto e
Micene; però egli non era un cattedratico bensì un dilettante, geniale ma pur
sempre un outsider. Grazie all’avanzamento della tecnologia e della chimica già nella
prima metà del secolo scorso, le indagini stratigrafiche permisero di capire
che i ritrovamenti di Schliemann mostravano una’evoluta società in tempi assai
anteriori al periodo del ciclo troiano (XII-XI sec. a. C.): gli studi condotti
dal prof. Carl W. Blegen della Yale University, tra il 1932 ed il 1938,
dimostrarono che i resti del nucleo primigenio (cosiddetta -Troia I- 18)
risalivano addirittura al 3000-2600 a. C.. Queste datazioni indicano una civiltà
che per antichità può quasi rivaleggiare con il primo periodo dinastico egizio;
eppure in quella zona costiera dell’Anatolia, ove si trova la collina di
Hissarlik-Troia, in base agli studi precedenti era ritenuto assai improbabile
che a quell’epoca un siffatto livello potesse esistere. Lo schema delle età inizia ad apparire come una camicia di un
bambino che si stringe sempre più su un corpo che, in piena fase di sviluppo, continua
a crescere, fino a che la persona, ormai diventata adulta, continua a portare
quell’indumento striminzito, miserrimo, scucito e pencolante, nonostante la
palese ridicolaggine. Ma non c’è scandalo: fintanto che, nella comunità degli
studiosi, il classico bambino di turno non urla: -Ma il re è nudo!-, l’inciucio
prosegue e continua ad essere insegnato. Invece,
le cose si complicano per davvero quando in Egitto ed in Mesopotamia
arrivano le cime dell’intellighenzia
accreditata; sicché, in breve, che cosa succede? Succede che molti reperti di
pregevole fattura sembrano essere più antichi rispetto al periodo entro il
quale si dovrebbero incasellare in base alla semplice suddivisione del
reverendo Mahudel e successivi. In altre
parole, l’antichità di quei reperti spinge a retrodatare l’uso del ferro, in
quanto prodotto di evidenti fasi evolute, in epoche più remote rispetto a quella famosa
periodizzazione. Nessun problema: si tira la coperta da una parte e poi dall’altra. Quindi, verso la fine degli
anni ‘30, era possibile datare un
manufatto non solo per le caratteristiche apparenti ma anche grazie al contesto
geologico nell’ambito del quale esso era ritrovato: le analisi chimiche già
permettevano di individuare con buona approssimazione l’epoca degli strati
della crosta terrestre, sicché, quando un oggetto in ferro, oppure un prodotto
la cui manifattura indicava l’uso di utensili in ferro, veniva trovato in uno
strato più antico di quanto si aspettasse, per esempio risalente al periodo del
bronzo, bisognava retrodatare la scoperta del ferro. Il seppur utile sistema delle
età entra concettualmente in crisi quando, all’inizio degli anni ’50 del secolo
scorso, si perfeziona la tecnica della datazione tramite il carbonio 14, detto
anche radiocarbonio19. In breve, grazie al decadimento di questo isotopo
radioattivo, presente nel materiale organico, si può calcolare l’età del
reperto sino a circa 60.000 anni prima del tempo corrente (in inglese before present, prendendo come terminus ante quem il 1950), inoltre,
più il periodo del reperto in questione è vicino (anche il periodo sumerico,
secondo tali parametri è da ritenersi tale) maggiore è la precisione della
datazione; dunque, per esempio, se negli strati più interni di una lama in
ferro si trovano residui organici risalenti al 2500 a. C. conseguentemente
bisogna dire che quel coltello fu costruito molto prima del periodo ritenuto normale.
Per evitare che il sistema tripartito entri definitivamente in collasso, il
periodo metallurgico è stato
coerentemente adattato ed esteso alla preistoria, anche aggiustandolo
relativamente alle varie realtà geografiche. Insomma, l’impianto siderurgico
aggiornato e corretto ancora viene insegnato nelle scuole di ogni ordine e
grado; però ad un occhio attento ed indipendente non sfuggono le contraddizioni
temporali, che potremmo definire delle vere e proprie enclave, ove si riscontrano degli oggetti (in realtà molti) che
stridono fortemente col contesto complessivo. La comunità scientifica ufficiale
usa astutamente, un colpo al cerchio ed uno alla botte, la scoperta del ferro meteorico per tentare di
risolvere definitivamente il problema. Il ritrovamento di oggetti fatti di
questo particolarissimo minerale, letteralmente proveniente dal cielo, è un’ottima
scusante per spiegare l’esistenza ingombrante di manufatti ferrosi in epoche
remotissime e prive degli strumenti più basilari per lo sfruttamento minerario (attenzione,
sempre secondo la storiografia ufficiale). Questo è un vero e proprio inciucio
che permette di spiegare come il debutto dell’età del ferro20,
in forma di oggetti ornamentali, sia stato
addirittura retrodatato in Africa, in particolare Egitto predinastico, sino al III millennio a. C. Semplice, pur non potendo
sfruttare i giacimenti che avevano sotto i propri piedi perché non ne avevano i
mezzi, gli africani lavoravano il ferro caduto dal cielo perché era lì sotto
gli occhi di tutti pronto per essere sfruttato. Però, non mi risulta che sia
stato rinvenuto alcun utensile in ferro
meteorico, davvero atto ad un qualsivoglia duro lavoro, che possa essere attribuito a quella remota epoca. Infatti, c’è
un altro problema, tale minerale è composto da una lega complessa durissima e
resistentissima, impossibile da lavorare proficuamente senza gli strumenti
metallurgici adatti (soprattutto altiforni e crogiuoli refrattari alle
elevatissime temperature necessarie per la fusione); insomma, popoli senza la
dovuta tecnologia non possono raggiungere risultati che necessitano
imprescindibilmente di determinati fattori. A tal fine è interessante notare
quanto il ferro meteorico sia da sempre apprezzato per la forgia di lame di
elevatissima qualità21 (per dirla all’inglese combat ready) e di assai ardua realizzazione, dato che in realtà esso
è un vero e proprio acciaio in attesa di essere lavorato22. Non
solo, fino all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso si è ritenuto che
l’acciaio (cioè lega di ferro più carbonio ed altri elementi) sia stato un
progresso risalente, cronologicamente parlando, ai tempi della crisi di Roma
imperiale ed all’inizio delle pressioni dei mongoli dall’Est; eppure recenti
ritrovamenti retrodatano il suo uso al
2000 a. C. Mi riferisco ai manufatti di
Kaman-Kalhoyuk nel cuore dell’attuale Turchia, ritrovati e studiati dal
ricercatore giapponese Hideo Akanuma23, tra il 2006 ed il 2008:
essi sono stati prodotti in acciaio ad alto contenuto di carbonio in un
contesto che scombina lo scacchiere ipotetico precedente; ma reperti similmente
composti sono stati trovati anche in Mesopotamia, India, Cina ed Africa orientale,
oltre che, ovviamente, in Egitto. Però lo schema tripartito, poi diventato
quadripartito a causa dell’inserimento del rame, è ancora lì sbilenco a tener
banco, anziché essere stato buttato nell’immondizia coram pupulo. Ma voi ed io vediamo che queste contraddizioni
abnormi di tempo e di luogo, questi particolari Out Of Place Artifacts, anziché enclave
appaiono come veri e propri eczemi che si diffondono sul tessuto malato che è
la manfrina confezionata dalla –cosca del sapere-. Studiosi contemporanei
assai validi quali, Kristian Kristiansen24, Graham Connah25, Peter Bogucki26, David Browman27, evidenziano il semplicismo, le lacune e le
incongruenze dell’intero impianto ma si guardano bene dal portare alla ribalta
gli indizi che pure escono dalle loro stringenti deduzioni. A questo punto è
necessario focalizzarci sull’articolo A
Short History of Metals scritto dal
il prof. Alan W. Cramb28, uno dei massimi esperti di
ingegneria dei metalli negli USA: in riferimento alla storia del ferro scrive
tra l’altro:
“ La pratica della fusione del ferro inizia all’incirca nel 1500 a. C.
[…] C’è qualche indizio che l’uomo abbia cominciato a lavorare il ferro già intorno al 2500 a. C.; comunque, la
lavorazione di questo metallo non diventata una faccenda di tutti i giorni sino
al 1200 a. C. L’ematite, un ossido del ferro, fu largamente usata per produrre
monili ed ornamenti; è facilmente ottenibile usando anche il carbone. Inoltre,
il materiale ferroso prodotto a temperature comprese tra i 700 ed 800 ° C non è
utilizzabile per la forgia, sicché deve essere prodotto a temperature superiori
ai 1100 °C. Il ferro battuto è stata la prima forma utilizzata dall’uomo. Il
prodotto della reazione era una massa porosa mista a scorie; quindi essa doveva
essere battuta, surriscaldata ancora, ribattuta per espellere le scorie e
quindi forgiata nella forma desiderata. Nei primi giorni della metallurgia, il
ferro era cinque volte più costoso dell’oro e i primi usi furono ornamentali.
Le armi in ferro rivoluzionarono l’arte della guerra ed il ferro comportò lo
stesso sconvolgimento nell’agricoltura. Ferro ed acciaio furono le fondamenta
su cui si è costruita la civiltà. [ …] Questi sette metalli: oro, argento,
rame, piombo, stagno, mercurio, ferro e le leghe bronzo ed elettro (lega naturale d’oro ed argento, a
volte anche con scorie N.d.A.) furono il punto di partenza della metallurgia e,
perfino in questa breve storia, noi ci confrontiamo con alcuni dei fondamentali
problemi del processo metallurgico. I problemi sono i seguenti:
-il minerale deve essere scoperto,
separato e modellato prima che lo si possa usare;
-il minerale deve essere fatto reagire
sotto una temperatura controllata e sotto una pressione atmosferica
controllata;
-il metallo liquefatto deve essere prima mantenuto e poi gettato in un preciso stampo;
-il
metallo deve essere lavorato per raggiungere le desiderate e finali proprietà e
forma.”
Ed io aggiungo anche la
difficoltà di trovare e riconoscere il materiale refrattario al calore adatto
per costruire vere e proprie fornaci: quindi arriviamo a comprendere come i
nativi peruviani29 di quell’epoca fossero impossibilitati
letteralmente ad avere gli strumenti congrui per lavorare questo stupefacente
monolito. Dirò di più: quello che ho affermato
per esso si deve estendere a moltissimi
altri manufatti, tra i quali (solo per nominarne qualcuno, la lista è
lunghissima) il cosiddetto sarcofago di Cheope, la Piedra del Sol azteca e la stele di Hammurabi. A fronte di queste
stesse incongruenze ed illogicità palesi dei dogmi ufficiali accademici, Joseph
Davidovits30 ha affermato che gli Egizi avessero una tecnologia così
avanzata da permettere di polverizzare gli enormi blocchi calcarei, del peso
dalle 2 t sino a 15 t, per poi
ricompattarli in loco sui bastioni
stessi della piramide in costruzione, ma cosa in riferimento ai giganteschi
blocchi di granito? Su questo Davidovits ancora non si pronunzia. Quindi, più
per le mancanze degli altri che per merito personale, mi trovo ad essere l’unico che individua nella
stele di Antonio Raimondi un Oopart.
Contraddizioni logiche e temporali
E’
interessante (ed oserei dire simpatico) sottolineare un elemento quasi
distonico: l’archeologia tradizionale ed ufficiale, soprattutto qui in Italia,
è una disciplina umanistica, cioè basata sulla filologia antica, la linguistica
romanza e germanica etc, la storia
dell’arte classica prima e poi del vicino Oriente. Recentemente stanno subentrando,
più lentamente che altrove, anche altre discipline quali la geologia (in particolare la
stratigrafia), l’antropologia fisica e l’antropologia culturale. Il progressivo
apporto di chimica e fisica rendono l’archeologia contemporanea un complesso
strutturale altamente interdisciplinare e tecnologizzato; ma ciò comporta un
grande problema: storici, filologi ed archeologi fanno parte di una casta che
comunque tende a perpetuare lo status quo universitario; ovverosia, è lecito scoprire
cose nuove ma il sistema totalizzante dogmatico deve essere mantenuto, non può
essere rivoluzionato. I problemi sono creati dai suddetti scienziati (coloro
che si occupano delle cosiddette scienze naturali, fisiche e matematiche);
questi ultimi se non sono zittiti o ammansiti a priori da qualche centro di
potere (per esempio: le case farmaceutiche o i militari) se ne fottono
altamente delle sicurezze sbandierate dagli accademici umanisti, sicché, quando
debbono pubblicare dei lavori che contraddicono le balle dei farisei in toga lo
fanno senza problemi di sorta; vedansi, per esempio, i lavori del genetista
Luigi Luca Cavalli Sforza31 che anticipano di più 10.000 anni la
presenza dell’umanità in America, rispetto alla favola della migrazione
attraverso lo stretto di Bering durante l’ultima glaciazione. Sembra di vedere
un po’ il diavolo che fa le pentole ma non i coperchi: gli studiosi di stampo
umanistico imbastiscono delle storielle affascinanti ed apparentemente solide
che si reggono fino a quando studiosi di stampo scientifico (o scientista, se
preferite) tirano dei siluri che dovrebbero affondare anche delle corazzate…ma
niente paura! Il sistema dogmatico della verità ufficiale ingloba e digerisce tutto,
proprio come lo stomaco di uno struzzo: basta
semplicemente che gli elementi apparentemente virali non vengano divulgati e
correttamente spiegati al pubblico; bisogna lasciare che gli imbonitori di
regime continuino a ripetere le fole che rassicurano i cuori e rincoglioniscono
i cervelli.
Antropologia culturale eretica
All’inizio
di questo capitolo è legittimo porsi la seguente domanda: è possibile paragonare l’incongruenza tra la
tecnologia infima del suo contesto storico e l’eccezionale risultato tecnico ed
artistico personificato dalla stele di
Raimondi alla situazione di altri manufatti? La risposta è ovviamente sì: un suggerimento, se volete immergervi in un
lavoro monumentale e rigoroso vi consiglio senz’altro Archeologia proibita di Richard Cremo32, scritta in
collaborazione con Richard L. Thompson,; in Italia questo lavoro fondamentale
non ha avuto il meritato riscontro presso il vasto pubblico solitamente
interessato a tali argomenti: credo che ciò sia da ascrivere ad un
probabile pregiudizio nei confronti
della religione professata da Cremo, egli è infatti un aderente alla International Society for Krishna
Consciousness (ISKCON), cioè è un cosiddetto Hare Krishna, è altrettanto vero che nei
suoi lavori di indagine archeologica Cremo non si sogna minimamente di fare
proselitismo, né si perde in panegirici di stampo new age. Dulcis in fundo, cosa rappresenta il personaggio grottesco della
stele di Raimondi? Egli è definito dagli
studiosi come El Dios de los dos Báculos, cioè il dio con i due bastoni, ed offre la
possibilità di un approccio analitico sia ortodosso che eterodosso; andiamo con
ordine. La parola Totem appartiene al gruppo linguistico
algonchino-athabaska (America del Nord) ed ha una pletora di significati, ma
tutti portano alla trascendenza. I Totem più famosi sono
proprio quelli della nostra infanzia, che abbiamo visto nei film e nei fumetti western; ebbene, essi in linea di massima erano delle
riproduzioni fedeli degli originali; abbiamo imparato conoscerli come pali di
legno, sui quali erano intagliate delle figure di animali diversi tra loro ma
quasi avviluppati gli uni agli altri, più raramente anche figure antropomorfe,
che si sviluppavano in altezza. Purtroppo, spesso ci sono stati mostrati come
strumenti di tortura, cosa che non corrisponde al vero. In realtà essi erano il
tentativo di unire il mondo contingente col mondo soprannaturale; in questo
elemento di mediazione –inframondano- venivano unite in simbiosi le
rappresentazioni delle varie divinità e le parti strutturali del gruppo
sociale, partendo dall’entità basilare della banda finendo alla nazione.
Senz’altro lo slancio era verso il cielo ma la base del simulacro era comunque
saldamente infissa nella terra, non solo per motivi meramente utilitaristici;
molte stele precolombiane sono veri e propri Totem litici . Troviamo quindi che lo stesso approccio di tipo antropologico
culturale ci porta ad una lettura a più livelli:
-
il Totem come
elemento catalizzatore tra la trascendenza e l’immanenza;
-
il Totem
come raffigurazione
esplicita degli esseri divini e della loro associazione con gli umani;
-
il Totem come
rappresentazione dell’identità esistenziale e storica del popolo nativo.
L’afflato
è il raggiungimento ed il mantenimento dell’armonia, lo sciamano
ne è l’interprete già predestinato alla nascita e poi
riconosciuto dal gruppo. Anche la stele di Raimondi è un Totem
litico: in esso, l’artista sconosciuto ha, o più propriamente: gli
artisti sconosciuti hanno, voluto immortalare gli esseri sovrumani
con i quali la cosiddetta civiltà Chavín
era in contatto, esseri che sono stati trasfigurati in modalità più
consone alla prospettiva mistica e tribale; non solo Picasso,
Salvador Dalí e
Giorgio De Chirico, solo per fare qualche nome, hanno distorto e
riplasmato la realtà contemporanea e tecnologica che abbiamo sotto i
nostri occhi, per aggiungere altri significati, reconditi o
addirittura estranei. Ciò fu fatto legittimamente già al momento
della realizzazione del nostro convitato di pietra
33 Autori
imprescindibili nel campo dell’-Alterità-34
quali Erich von Däniken, Peter Kolosimo, John Mack , Zecharia
Sitchin e Corrado Malanga35,
colui che ritengo il
più eminente, hanno, tramite approcci seppur diversi, ripetutamente
individuato nell’ambito del lungo campionario alieno delle figure
preminenti: i Rettiliani, i Nordici con pupilla verticale ed i Grigi.
E’ assolutamente inutile che io mi dilunghi nel descrivere tali
tipologie; i suddetti Autori lo hanno già fatto ampiamente. Posso
solo sottolineare che io, tramite l’analisi comparata delle
religioni antiche, ho proposto la mia griglia interpretativa su
allegorie artistiche e narrative, sia in forma di miti orali che
scritti, nonché di rappresentazioni pittografiche o scultoree, che
si basano su tali specie aliene. Dato che ne ho parlato diffusamente
in vari articoli che si trovano nel sito di www.Sentistoria.Org36
ora voglio
solo sintetizzare questa mia chiave di lettura in cui i Rettiliani
sono i draghi; i Nordici dalla folta chioma rutilante e la pupilla
verticale sono assimilati al dio giaguaro; mentre il Grigio,
grottesco nano, compare quasi come un giullare, recante in testa un
pesantissimo copricapo che raffigura i suoi padroni. Su quest’ultimo
abbiamo la possibilità di soffermarci e di inquadrarlo come colui
che fa la maggior parte del lavoro sporco durante le abduction. Il
cosiddetto the
Grey,
piccoletto, paffutello e caricaturale, nell’ampia casistica dei
rapimenti appare come il classico cacio sui maccheroni, silenzioso e
zelante Arlecchino servo di molti padroni37,
in questa manifestazione epifanica lo si vede associato a due tra gli
aguzzini più palesi agli occhi degli addotti. Ritorniamo ancora alla
stele; la trasposizione visiva è minuziosa, certosina, la ridondanza
dei particolari è a livelli barocchi e nulla è affidato al caso.
L’artista, singolo o collettivo che sia, ha voluto rendere
precisamente un progetto rappresentativo: l’evidenza è che non un
-dio giaguaro- si è voluto ritrarre bensì il Grigio con tre dita
nelle mani (richiudibili e con pollice opponibile) e due dita nei
piedi. Questa figura è ampiamente citata 38
nei Branton
files ed in
vari avvistamenti in America Latina, in special modo gli avvenimenti
di Varginha, Brasile, nel gennaio del 1992; essa è anche un
identikit del famoso viandante notturno universalmente noto come
Chupacabras.
Se si fosse voluto raffigurare il giaguaro, ci sarebbe stato tutto lo
spazio per scolpire le cinque dita per cadauna zampa anteriore e le
quattro dita di ciascuna zampa posteriore. Per ragioni diverse, sia
artistiche che psicologiche, sono rilevanti i due scettri (Los
dos Baculos in
spagnolo): sono i quasi onnipresenti simboli della dualità,
dell’opposizione: immanenza e trascendenza, Yin
e Yang,
mortale ed immortale, terrestre ed extraterrestre; ma l’elenco è
infinitamente lungo. Se poi qualche competente vi sa scorgere delle
raffigurazioni di circuiti adducendo congrue dimostrazioni io,
ebbene, non ho opposizioni di sorta. Mentre l’ominide
Guardalaluna39
contemplava un
blocco anonimo (ma solo all’apparenza), un monolito di granito
nero, levigato a specchio e di dimensioni simili, noi abbiamo la
possibilità di ammirare un’opera d’arte sopraffina, stridente e
scomoda: la rappresentazione di un portale (questa è la spiegazione
della cornice che percorre tutto il perimetro esterno) sul quale si
affaccia questo personaggio sincretistico, nell’atto di varcare la
soglia tra due mondi. Ma se quest’opera è così scomoda perché
mai non è stata dichiarata un falso moderno? Semplice: essa è sotto
gli occhi di tutti, soprattutto degli studiosi, ininterrottamente dal
1860: un’epoca in cui la strumentazione contemporanea per crearla
non esisteva ancora. Lo stesso discorso vale per tanti altri
manufatti; basta tacere il fatto che, tecnicamente parlando, è
palesemente impossibile realizzarli proprio secondo le
contraddittorie teorie che la cultura ufficiale mette in giro, senza
stare molto attenta alla congruità delle affermazioni, contando che
la cosiddetta massa tanto poi non si accorgerà di niente. Quando,
circa trentacinque anni fa, esternai al mio professore di storia
perplessità simili, riguardo al sarcofago di Cheope, ricevetti
questa risposta:”…se
ce lo abbiamo lì davanti agli occhi un diavolo di modo lo avranno
trovato per costruirselo!.. e non stare più a rompere!!”
ed è quello che dico anche io (insieme a tanti altri studiosi
eretici), ma non concordo affatto con la linearità darwiniana
rappresentata dallo schema delle età, che ci vogliono inculcare
dalla nascita dell’Illuminismo sino ad oggi; che è in realtà una
linearità maculata da pacchiane contraddizioni, logiche, temporali e
di luogo. Se l’evoluzione dell’homo
sapiens può
apparire più valida della storia di Adamo ed Eva (la quale comunque
allegoricamente vuol dire molto di più, ma “questa è un’altra
storia”) io contesto la lapidarietà dogmatica del processo storico
che va dall’età della pietra sino all’età dell’ Ipad
o, se preferite, dal tozzo ominide Guardalaluna
alla splendida Naomi Campbell. Non ho la pretesa di conoscere per
filo e per segno ogni tappa, ogni criticità, ma esistono evidenze
che prima della cosiddetta preistoria vi è stato un periodo fastoso,
colto e tecnologico che, onorando Platone40,
non ho difficoltà a definire come età atlantidea, durante la quale
erano a disposizione tutti gli strumenti tecnologici per scolpire la
stele di Raimondi e costruire ben altro. Evidenze archeologiche
suffragate dalle analisi stratigrafiche, dalle corrispondenze
astronomiche (scoperte dalla seconda metà del secolo scorso anche in
riferimento a siti particolarmente nevralgici e famosi quali Giza e
Tihauanaco) ci parlano di eventi epocali avvenuti all’incirca
13.000 anni or sono (tale data è, a spanne, una metà di un ciclo
precessionale), un ampio periodo nei paraggi dell’ultima
glaciazione. Quella è l’epoca remotissima in cui secondo i testi
sacri dell’umanità (Bibbia, Veda, codici Maya ed Atzechi etc.) e
le tradizioni orali millenarie dei popoli nativi (Zuni, Dogon,
Tibetani etc.) gli esseri soprannaturali provenienti dal cielo
vivevano su questo pianeta. Da quelle fonti si evince sempre un grado
di netta subordinazione dell’umanità nei confronti dei “discesi
dal cielo”; a volte un gregariato dotato di una certa autonomia
però mai un’emancipazione con parità di lignaggio. Una serie di
concause, primariamente belliche e cataclismatiche 41,
hanno portato
alla fine di quell’epoca ma non alla fine della morsa aliena
sull’umanità. La sensazione è che i dominatori si siano ritirati
nell’ombra, nascosti dietro un sipario, ma che in più di
un’occasione abbiano agito a fianco degli uomini e sulla pelle
degli uomini; il tutto per farci credere d’essere individui
realmente dotati di libero arbitrio. Quindi, se veramente la stele di
Raimondi è stata realizzata nel 900 a.C. nell’ambito della civiltà
Chavín,
vuol dire che i suoi realizzatori hanno goduto di un lascito
tecnologico, una vera reliquia, di Atlantide; ma io ritengo che la
stele, così come altre realizzazioni eclatanti e distoniche, debba
essere retrodatata direttamente in quel periodo lontanissimo. I
sicofanti del regime accademico allorché incocciano in un
qualsivoglia quid
stridente con i dogmi mummificati, in prima battuta, tentano di
screditarlo tacciandolo di frode, invece, innanzi ad un reperto di
autenticità cristallina (come per esempio il monolito in argomento),
lo avviluppano in un bozzolo di edulcorate dichiarazioni a mezza
bocca, tralasciando le evidenti contraddizioni per poi parcheggiarlo
nell’oblio; quindi, in tempi successivi, evitano accuratamente di
approfondire ricerche che le innovazioni tecnologiche rendono
appetibili e semplicissime; molto di ciò che non era possibile 150
anni fa oggi lo è: l'esame al microscopio petrografico delle sezioni
sottili, l'analisi diffrattometrica, l'analisi degli elementi in
tracce, l'analisi isotopica, la spettrografia all’infrarosso, per
citare solo alcuni dei principali esempi. Ecco perché il massimo
reperto artistico di tutto il Perù precolombiano è alla vista in
un luogo qualsiasi del Museo
de la Nación,
senza che gli venga dedicata un’area tematica e mezzo nascosto dal
chiosco delle bibite, almeno tale era la situazione tredici anni or
sono: la
stele di Raimondi è un manufatto unico ed impossibile nel contesto
storico e tecnologico propugnato dalla storiografia ufficiale. C’è
una ratio
dietro il comportamento omertoso ed ingannevole della –cosca del
sapere-? Sì: tale cricca è semplicemente un tentacolo della piovra
totalizzante che gestisce il living
theatre
della farsesca democrazia occidentale, un enorme gioco di ruolo ove
anche i burattinai (tra cui solo in pochi sono coscienti di chi è
letteralmente sopra le loro teste) sono semplici esecutori di ordini
altrui; ma è un argomento assai più ampio e già ben analizzato da
studiosi quali David Icke, Maurizio Blondet e Corrado Malanga.
Foto V – Dio giaguaro
preincaico, l’eterno nemico (ma non il solo) del dio serpente. Terracotta
risalente al V sec. A C.. Si possono vedere le nette somiglianze con le stilizzazioni
feline sulla stele. Ho effettuato questa foto durante gli scavi nell’ambito
della Huaca Pucllana (nota anche come
Juliana). Il termine quechua –huaca-
sta per luogo sacro, interdetto, ma anche sicuro, fortificato; la cosa più
probabile che in questo caso si tratti di una fortezza-santuario. L’etimo Pucllana rimane oscuro.
Appendix Reptiliana
Foto VI,VII – Ringrazio l’amico Metal
Andrea per aver usato la sua fotocamera per questi scatti
Nei miei lavori precedenti mi sono soffermato sul culto del serpente, in particolar modo in Hydra Tripudians, confrontandomi con un’apparente lacuna nell’ambito del mondo romano. Concordo sul fatto che quest’ultimo abbia introiettato miti e leggende di quello greco in un’epoca così precoce del proprio sviluppo che non abbia sentito la necessità di crearne indipendentemente, salvo davvero poche eccezioni42; quindi, gli aspetti regali e divini con i quali appare il serpente in molte circostanze, però senza mai assurgere alla dignità di dio in piena regola, nell’ambito della mitologia greca sono stati traslocati a Roma già in epoca monarchica. Su questa base nell’ambiente archeologico si è sempre glissato sull’argomento, adducendo che non vi sono evidenze archeologiche per affermare l’esistenza di un culto del -dio serpente- in Roma arcaica. Mi sento di poter smentire ciò in primo luogo grazie alla numismatica, dato che essa è una disciplina che rientra a pieno titolo negli strumenti della ricerca archeologia. Mi riferisco ad una particolare moneta molto in voga in età imperiale: il dupondio; il nome significa –due libbre-, dal latino duo asses pondo semplificato in dupondius, con esso era possibile comprare due libbre di pane; il metallo è composto da una lega di rame e zinco, la quale, fintanto che rimane pulita, all’apparenza è vagamente simile all’oro, potremmo definirla l’oro dei poveri. Il lato principale di questa moneta, che risale all’incirca al 150 d. C., reca l’effige dell’imperatore Antonino il Pio, figlio adottivo di Adriano ed a sua volta zio e suocero del suo successore Marco Aurelio. Ma è il lato opposto ad interessarci, dato che è una testimonianza esplicita: in esso la dea Salus (salute) offre cibo ad un serpente che si erge su un altare43. Salus, seppur mai assurta al rango di una dea quale Giunone moglie di Giove o Minerva figlia di quest’ultimo, è una divinità di origine antichissima che rappresenta sia la salute dell’essere umano che della Res Publica. In senso più ampio essa è anche una trasfigurazione dell’eterna giovinezza degli dèi. Nonostante la mancanza di una congrua letteratura che parli di lei, le sue caratteristiche ricordano alcune divinità di altri popoli dell’antichità:
- la greca Igea,
che letteralmente significa –cura-, -rimedio-, è figlia di
Asclepio e le sue rappresentazioni sono identiche a quelle di Salus;
- la dea Ebe
coppiera degli dèi greci, ai quali assicura l’eterna giovinezza
tramite l’elargizione di nettare ed ambrosia; ella diviene la sposa
di Eracle
allorché questi è ammesso nell’Olimpo dopo la sua
morte/resurrezione; - la dea celtica Sirona,
è la signora delle fonti guaritrici e molte rappresentazioni
scultoree la raffigurano con un serpente che avvolge il suo corpo;
- Iðunn
(Idun), è colei che custodisce le magiche mele che mantengono
giovani gli dèi del Nord che vivono in Asgard,
è sposa di Bragi figlio di Odino.
Da tutto ciò si può senz’altro
evincere un substrato comune e primordiale, dal quale i vari popoli
hanno sviluppato una tradizione indipendente nei secoli successivi:
una dea che ha il gravoso compito di assicurare agli dèi l’eternità.
Pertanto, la raffigurazione del lato b mostra una scena esplicita e
trascurata dai vari studiosi interessatisi all’argomento: la dea
che rappresenta la –Salute-, la –Giovinezza- e la -Longevità-
apparentemente ciba il serpente ma in realtà cura la longevità, se
non addirittura l’eternità, del -dio serpente- che si erge sul
proprio altare, retaggio del culto remoto del quale anche a Roma era
rimasto sentore. La presenza dell’altare non deve lasciare dubbi:
su di esso venivano venerati solo gli dèi. E’ importante
sottolineare che vi sono, purtroppo solo scarne, tracce di questa
tradizione nella letteratura di Roma antica arrivata fino a noi. Riti
della fertilità si intrecciano alla basilare divinità ctonia. Ho
deciso di riportare integralmente la mia traduzione dei distici dal I
al XIV dell’ottava elegia, dal IV libro delle Elegiae
di Sesto Aulo
Properzio44,
poiché, oltre che assai belli ed evocativi, il lettore abbia la
possibilità di una fedele lettura.
Apprendi ciò che questa notte rimestò le acque
dell'Esquilino,
quando fitta la folla accorse nei nuovi giardini.
L'antica Lanuvio è custode di un annoso drago,
colà, dove non è uno spreco l'ora per una così
rara sosta,
dove il sacro cammino discende in un antro cieco,
dove entra la vergine (attenzione lungo tutto questo
percorso!)
premio del giovane serpente,
quando chiede il pasto annuale
e dalla profonda terra si contorce sibilando.
Impallidiscono le fanciulle inviate a siffatti sacri
riti,
allorché con timore la mano è concessa alla bocca
del serpente.
Quello afferra i cibi offertigli dalla vergine:
gli stessi canestri tremano nelle mani della vergine.
Se sono state caste, ritornano all’abbraccio dei
genitori
ed i contadini proclamano "l'anno sarà
fertile".
Nell’originale latino che
troverete in nota compare il termine draconis,
genitivo da draco-nis
imparisillabo della III declinazione; quando gli autori latini
utilizzavano questo nome non era a caso, bensì per indicare un
essere serpentiforme immane e degno di tutto il rispetto. Claudio
Eliano fu un retore di Preneste che ha scritto solo opere in greco
attico, nel Περὶ
ζῴων
ἰδιότητος
(Sulla natura degli animali)45
ci lascia una
versione alquanto simile del mito precedente (differisce soprattutto
il luogo: non Lanuvium
bensì Lavinium),
ma che non raggiunge affatto il livello artistico di Properzio; ciò
che vale la pena di riportare è la frase di apertura:
“Peculiare
è il potere divinatorio del drago”
Ciò che poi è ribadito dall’ultima:
“Il
drago dunque era in grado di verificare propriamente che fossero
nelle condizioni richieste dal vaticinio
*” *cioè vergini
Reliquie della supremazia dell’alieno Sauroide,
trasfigurato in epoche successive che si allontanano dal primigenio
nucleo di testimonianze dirette.
Note
Premessa
Ho cercato di inserire
quanti più link allo scopo di consentire un diretto ed immediato (nonché
gratuito) accesso alle fonti ed ai documenti che ho utilizzato. Pur se, in tutta
sincerità, ritengo l’inserimento delle note (a piè di pagina o fuori testo, la
cosa mi è indifferente) un lavoro lungo e tedioso, questa volta ho deciso di esporre al massimo
le basi delle mie asserzioni, in quanto ho voluto attaccare senza mezzi termini
alcuni fatiscenti dogmi dell’ufficialità accademica, sicché spero che anche
quanto segue possa essere di gradimento. Le opere in lingua straniera sono
riportate col titolo in originale solo nel caso esse non siano state tradotte
in italiano.
http://www.loescher.it/librionline/risorse_forzaimmagine/download/w3264_figura_arte.pdf
3 Il quechua
è la lingua parlata da una gran parte di nativi del Perù, Bolivia ed Ecuador;
nei tempi più antichi essa era l’idioma degli abitanti della Valle Sagrada, la zona andina che
circonda Cuzco. Proprio basata sull’antica e vasta tradizione orale quechua, l’opera più famosa del principe
meticcio Inca Garcilaso de la Vega è fondamentale non solo per il Perù ma per
tutto il periodo coloniale ispanico: Comentarios
reales de los incas o Primera parte de los comentarios reales, la cui
redazione inizia nel 1586 mentre la
pubblicazione avviene a Lisbona
nel 1609; seguita dall’altrettanto monumentale Segunda parte los Comentarios
Reales o Historia General del Perú, pubblicata a
Córdoba nel 1617. Questo autore rappresenta il
primo esempio, sulla ribalta internazionale letteraria, dell’unione del mondo
nativo e di quello europeo: il padre, il conquistador
Sebastiàn Garcilaso de la Vega, era nipote del grande poeta spagnolo Garcilaso de
La Vega; mentre la madre, principessa Isabel Chimpu Ocllo,
discendeva
direttamente dall’imperatore Túpaq Inka Yupanki, decimo sovrano della dinastia
incarica. Nella prima parte dei Comentarios
si trova la spiegazione dell’origine del nome della città imperiale:
-Pusieron por punto o centro (del Tahuantinsuyu) la ciudad del Cozco,
que en la lengua particular de los lncas quiere dezir ombligo de la tierra;
llamáronla con buena semejança ombligo, porque todo el Perú es largo y angosto
como un cuerpo humano, y aquella ciudad está casi en medio-.
Voglio sfruttare l’occasione per citare colui il
quale io considero il primo antropologo culturale del mondo amerindio: mi
riferisco ad Álvar Núñez Cabeza de Vaca. Durante le traversie ed i successi
della sua vita, egli fu testimone diretto dei patimenti inflitti dai conquistadores al popolo nativo nel nome
dell’oro e della croce, dalle foreste della Florida sino alle cateratte dell’Iguazú. L’opera autobiografica Naufragios, prima edizione Zamora
(1542), che narra dei lunghi otto anni di fuga dopo il completo fallimento
della spedizione comandata da Pánfilo de Narváez, è disponibile in
originale al seguente link:
Con le opportune ricerche, è possibile trovare in
Rete il notevole film Cabeza de Vaca, diretto nel 1991 dal regista messicano Nicolás Echevarría e fedelmente ispirato alla
suddetta opera.
4 Antonio
Raimondi, Milano, 19 settembre
1826 – San Pedro de Lloc, 27 ottobre
1890
5 Leoncio Prado Gutiérrez
El Pradito, Huánuco,
24 agosto
1853 - Huamachuco,
15 luglio
1883 - Ferito gravemente durante
la battaglia di Huamachuco, venne preso poi prigioniero e, mentre era infermo
su un giaciglio di fortuna, venne fucilato dagli invasori cileni. L’attuale
scuola militare di Lima reca il suo nome.
7 Nel gennaio del 1881, il preponderante esercito cileno
attacca i pochi e male armati soldati peruviani, per lo più civili
improvvisatisi guerrieri all’ultima ora, che ancora difendono Lima; i difensori
invano cercano, disperatamente, di
ricacciare i nemici dagli ultimi bastioni durante la battaglie di San Juan y
Chorrillos, 13 di gennaio, e di Miraflores, 15 di gennaio. Il 16 di gennaio
inizierà la nefasta occupazione cilena della capitale peruviana.
9 Wade,
N. & Wenderoth, P. (1978) The influence of colour and contour rivalry on
the magnitude of the tilt aftereffect.
Vision Res 18: 827-36
10 “Del mismo Castillo se ha desenterrado una
piedra de granito de forma rectangular, de 1,88 m de largo, 0,70 de ancho y
0,15 de grosor, * con dibujos todavía más complicados que los de la columna
[...] Dicha piedra es de gran estimación, por lo complicado y la hermosura de
su diseño, por la finura y sorprendente simetría que se nota en un dibujo tan
difícil, que el mejor artista no habría podido hacerlo más perfecto. Ella es de
por sí un precioso monumento que debería conservarse con el mayor cuidado en el
Museo Nacional, porque da una exacta idea del gran desarrollo que había
alcanzado el simbolismo, el dibujo y el arte de trabajar la piedra entre los
antiguos indios.”
* in realtà è un po’ più grande, le dimensioni
corrette sono quelle che ho riportato precedentemente.
http://www.miotas.org/blog_body.cfm?id=A263A16E-F04B-16B7-79F79448E476FB97
12
In effetti, Alfonso Klauer ci ricorda che il grande
archeologo nativo Julio C. Tello indicava l’origine caraibica del nome
Chavín, trovando in –giaguaro- la sua traduzione:
Klauer, Alfonso,
El mundo pre Inka : Los Abismos del Cóndor, Lima, 2000; disponibile
in rete presso i seguenti link:
http://www.eumed.net/libros-gratis/2005/ak1/01%20Abismos%20I.pdf
Dato
che in quechua la parola più usata per indicare una roccia di notevoli
dimensioni è wanka, mi azzardo a supporre che wantar possa esserne un derivato
corrotto, arrivando quindi alla definizione legittima ma assolutamente
ipotetica di -Giaguaro di Pietra-.
Comunque,
studiosi del calibro di Klauer, Miloslav Stingl e
soprattutto l’impareggiabile prof. Julio C. Tello concordano
nell’avanzare l’ipotesi di una forte influenza mesoamericana nello sviluppo
primigenio delle popolazioni precolombiane del Perù.
16 Ma già Tito Lucrezio Caro
(Pompei o forse Ercolano, 94 a.C. – Roma,
15 ottobre 50 a.C.), nel suo De Natura Rerum (Intorno alle cose della natura) aveva
tracciato le grandi linee di questo pensiero.
17 La dissertazione viene poi raccolta nella
pubblicazione "Les Monumens les plus anciens de l'industrie des hommes,
des Arts et reconnus dans les pierres de Foudres", edita
nel 1740 dalla stessa Academié.
Attualmente, fra attriti,
dispute e tentativi di “quadratura del cerchio”, le ultime ed aggiornate
modificazioni dello schema fatte da studiosi contemporanei sono grosso modo:
-Età della Pietra
Finirebbe in Africa
(Egitto), in Asia mediorientale ed in
Estremo Oriente intorno al 5.500 a C.; in Asia centrale ed in Europa
continuerebbe sino al 4000 a. C.; in America si concluderebbe verso 1.500 a.C.
-Età del Bronzo (che in
realtà è preceduta dall’età del rame, vedere in seguito in questa nota).
Inizierebbe in Egitto
verso il 3.500 a.C., Mesopotamia verso il 3.300 a. C; in Cina verso il 3.000.
In Europa il passaggio è posteriore.
-L’Età del Ferro,
debutterebbe nel territorio ora
vagamente corrispondente all’Etiopia nel 2.600 a. C.; nell’ordine: Hyksos,
Ittiti, Assiri, Cananei, Achei ed Etruschi inizierebbero ad usarlo dal 1.200 in poi. I Celti ed i
Germani inizierebbero a forgiarlo a partire dal IX secolo a.C.
C’è da sottolineare che, nel
1881, il geologo ed archeologo britannico Sir John Evans nel The Ancient Bronze
Implements, Weapons and Ornaments of Great Britain and Ireland dimostra che l’uso del solo rame ha preceduto
quello del bronzo, ciò riesce ad aggiustare un pochino il gap tra il periodo del
bronzo e quello della pietra; sicché il sistema diventa quadripartito.
Ovviamente, non si deve
pensare ad uno sviluppo massivo e a tappeto bensì assai localizzato e a “macchie
di leopardo”.
18
Molto interessante ,riguardo ai dubbi sull’identificazione
degli strati urbani di Hissarlik con la Troia omerica, il seguente
articolo: http://www.varchive.org/nldag/idtroy.htm
In particolare: < Whichever level scholars
may agree to identify as Homer’s Troy ,
the wider problem of relating the Homeric geography to the site of Hissarlik
remains. Some years ago Rhys Carpenter put the matter very succinctly: “There
are obvious indications,” he wrote, “that Hissarlik does not agree with the
situation demanded by the Iliad, which speaks of a great walled city with
streets, houses and palaces, rising to a temple-crowned acropolis, at an
approachable distance from the Hellespont [Straits of Dardanelles] and
apparently invisible from it, situated across the Scamander, with abundant
springs of deep-soil water gushing close at hand. Actually, Hissarlik is in
plain sight of the Hellespont, on the same side of the river, without any
running springs, and enclosed within its walls an area of less than five acres.> V.
R. d’A. Desborough, The Last Mycenaeans and Their Successors (Oxford University
Press, 1964), pp. 164-65
http://www.minsocam.org/ammin/AM65/AM65_624.pdf
http://www.ucl.ac.uk/iams/newsletter/accordion/journals/iams_19/iams_19_1995_el_gayer
http://www.hindu.com/thehindu/holnus/001200903261611.htm
http://www.jiaa-kaman.org/pdfs/aas_17/AAS _17_Akanuma_H_pp_313_320.pdf
24 Kristiansen,
Kristian; Rowlands, Michael, Social
Transformations in Archaeology: global and local persepectives, Routledge, London , 1998
25 Connah,
Graham, Writing About Archaeology, Cambridge
University Press, 2010
26 Bogucki,
Peter, Northern and Western Europe : Bronze
Age, in Encyclopedia of Archaeology, pp. 1216–1226, Academic Press, New York , 2008
27 Browman, David L.; Williams, Steven, New Perspectives on the Origins of
Americanist Archaeology, University
of Alabama Press, Tuscaloosa , 2002
28 http://neon.materials.cmu.edu/cramb/
29
http://todosobrelahistoriadelperu.blogspot.it/2011/06/metalurgia-cultura-chavin.html
30 Joseph
Davidovits, - Il Calcestruzzo dei
Faraoni-, Profondo Rosso Edizioni, Roma, 2004
http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Luca_Cavalli-Sforza
33 Questa evocativa
definizione non è mia bensì deriva dal
Don Giovanni o Il convitato di pietra (Dom Juan ou le festin de pierre),
opera del grande Molière
34 Il termine -ufologia- qui è fuori luogo: mica parlo di dischi volanti; ad -alienologia- (che mi fa ridere) preferisco
–alterità-, che è un concetto che già fa parte della filosofia classica, pur se
con altre finalità.
35 Beh, riguardo a questi nomi così fondamentali non
credo che ci sia bisogno di suggerire una bibliografia.
37
Sempre per onor del vero, per questa
definizione mi sono ispirato ad
Arlecchino servitore di due padroni dell’insuperabile Carlo Goldoni
39 -Guardalaluna- è
l’ominide che incontriamo all’inizio sia
del film -2001 Odissea nello Spazio-, diretto da Stanley Kubrick su soggetto di
Arthur Clarke, che nell’omonimo (e successivo) libro scritto dal solo Clarke;
ambedue i capolavori sono del 1968.
40 Platone (Atene 428/27 -
348/47 a.C.) ce ne parla in due dei suoi famosi dialoghi, il
–Timeo- e il –Crizia-. E’
in assoluto il primo autore a parlare dettagliatamente di un continente
potente, chiaramente tecnologizzato e poi sommerso per una serie di concause.
41 Vi sono moltissimi libri
importanti al riguardo, io prediligo:
Hancock, Graham, Impronte degli Dei, Fabbri Editori, Milano,
2005
Wilson, Ian, I Pilastri di Atlantide, Fabbri Editori, Milano,
2005
Cotterell, Maurice M., Le
Profezie di Tutankhamon, Fabbri Editori, Milano, 2005
Bauval, Robert; Gilbert,
Adrian G., Il Mistero di Orione, TEA, Milano,
2005
42 Mi riferisco soprattutto al ciclo della
fondazione di Roma, dalla nascita di Romolo e Remo (generati dal dio Marte e dalla sacerdotessa vestale Rea Silvia) sino all’assunzione in cielo di
Romolo, sotto le nuove spoglie di -dio Quirino-.
43 Da non
confondere con la –S- maiuscola sulla destra che sta per –Salus-
44 Sesto Aurelio Properzio
-Assisi, circa 47 a.C. – Roma,
14 a.C.- è stato un poeta
romano. Qui di seguito il testo originale,
Disce quid Esquilias hac
nocte fugarit aquosas,
cum vicina novis turba cucurrit agris.
Lanvvium annosi vetus est
tutela draconis,
hic ubi tam rarae non
perit hora morae,
qua sacer abripitur caeco descensus hiatu,
qua penetrat virgo (tale
iter omne cave!)
ieiuni serpentis honos,
cum pabula poscit
annua et ex ima sibila
torquet humo.
Talia demissae pallent ad
sacra puellae,
cum temere anguino
creditur ore manus.
Ille sibi admotas a
virgine corripit escas:
virginis in palmis ipsa
canistra tremunt.
Si fuerint castae,
redeunt in colla parentum,
clamantque agricolae:
"Fertilis annus erit."
45 Claudio Eliano (in greco antico Κλαύδιος Αἰλιανός, in latino: Claudius
Aelianus; Preneste, ca 165/170
– 235).
Non ho trovato il testo in originale greco bensì la traduzione latina di
Friedrich Jacobs, Frommann edition,
Jena, 1832:
16
Est et peculiaris draconum divinatio. Nam et in Lavinio, oppido Latinorum (quod
a Lavinia Latini filia nomen accepit, quo tempore Latinus, Aeneae adversus
Rutulos auxiliatus, eos devicit, et Aeneas Trojanus Anchisae filius civitate
praedicta potius est; quae quidem Romae veluti avia nominari posset, ex hanc
enim profectus Ascanius Aeneae et Creusae Trojanae filius Albam condidit, cujus
colonia est Roma) ceterum in Lavinio sacer est lucus magnus et opacus, juxtaque
ipsum aedes Junonis Argolidis. In luco autem latibulum est amplum ac profundum,
draconis cubile. In hunc lucum sanctae virgines statis diebus ingrediuntur,
quae mazam gestant manibus, oculos fasciis devinctae; eas recta ad latibulum
divinus quidam spiritus deducit, sensimque ac pedetentim progrediuntur sine
offensione, ac si detectis oculis viderent. Quod si virgines fuerint, cibos
tanquam puros et deo gratae animanti convenientes admittit draco; sin minus non
attingit, corruptas esse intelligens et divinans. Formicae vero hanc mazam
a vitiata relictam minutatim confractam, quo facilius ferant, e luco
exportant, expurgandi gratia loci. Hoc cum fit, ab indigenis animadvertitur, et
quae ingressae fuerant indicantur, examinanturque; et cujus pudicitiam esse
violatam constiterit, poena legibus constituta plectitur. Draconis
igitur non expertes esse vaticinationis hoc modo demonstrarim.
Indice
della provenienza delle foto
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Foto I:
e qui
si può ammirare Plaza Italia in una cartolina del 1910
Foto
II: http://www.latinamericanstudies.org/chavin/raimondi.gif
FotoIII http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/7e/Raimondi_Stela_%28Chavin_de_Huantar%29.png
Foto IV:
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Foto V, VI, VII : queste foto sono di mia proprietà, ma chiunque
può utilizzarle e riprodurle a fine di studio, senza fine di lucro e purché si
citi la presente fonte
Veramente bravo questo Pensatore!
RispondiEliminaSi sente che ha in uggia l'archeologia ufficiale.
Ha spiegato bene come la diorite sia così dura che ci vogliono macchinari moderni per lavorarla.
Grazie. Non conoscevo questa storia.
;) forte si! Ciao ciao!
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