Ricevo e
volentieri pubblico il seguente articolo del Prof. Roberto Orsi,
tradotto da Andrea Muzzarelli che ringrazio per la segnalazione.
Perché l'Italia non ce la farà
di Roberto Orsi - PhD alla London School of
Economics, docente e ricercatore all’Università di Tokyo
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori
come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del Telegraph) e
Wolfgang Münchau (Financial Times) sono
recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione
economica dell'Italia e l'instabilità del suo debito pubblico. Le
argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con
cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli
operatori di mercato e dei policy maker nei confronti del debito sovrano
italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l'Eurozona – e
non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi
tutt'altro che favorevole sulle possibilità di "guarigione" del
nostro Paese.
Nei tre scritti si solleva una domanda
fondamentale: cosa succederebbe se l'economia italiana continuasse a
ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16?
Bootle osserva che "l'Italia è molto vicina
a quella situazione che gli economisti chiamano 'trappola del debito', quando
cioè l'indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale. Per
sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare
default. Non disponendo di una valuta nazionale, l'Italia non può controllare
la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi
in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile". Sul
piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una
soglia massima oltre la quale il default diventa "matematicamente
inevitabile". Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto
debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso
dell'Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans
ritiene comunque che "il debito pubblico italiano raggiungerà un livello
pericoloso il prossimo anno". Pericoloso al punto che "potrebbe
essere superato il punto di non ritorno".
L'articolo di Münchau è il più esplicito e
allarmistico: "La posizione economica dell'Italia è insostenibile e
sfocerà in un default a meno che non vi sia un'immediata e duratura inversione
di tendenza sul piano economico". E un default, naturalmente,
"comprometterebbe il futuro del paese nell'Eurozona e l'esistenza stessa
della moneta unica".
I tre pezzi potrebbero essere considerati come
(l'inizio di) un'offensiva mediatica indirizzata alla Banca Centrale Europea
per forzarla ad adottare politiche monetarie espansive simili a quelle della
FED, della Bank of Japan e della Bank of England – un intervento
che tutti e tre gli autori auspicano insieme alla realizzazione di ampie
riforme politico-economiche. Queste osservazioni vanno inoltre lette tenendo a
mente che le previsioni di crescita dell'economia italiana dal 2011 a oggi sono state
sistematicamente smentite. Quanto al 2015, il rallentamento dell'Eurozona e le
correzioni attese sui mercati finanziari internazionali rendono ben poco
verosimili le stime di aumento del Pil formulate dal nostro governo.
In un quadro
del genere, molti commentatori economici sono (finalmente!) giunti alla
conclusione che la crisi in corso è strutturale, e che si può ritornare
a crescere solo facendo le "riforme" – un termine che negli ultimi
tre anni è divenuto, specie con Renzi, un vero e proprio mantra della politica
italiana. Il dibattito in corso, tuttavia, potrebbe suonare imbarazzante per
chi vive in un paese europeo meglio funzionante del nostro. La natura e la
portata delle riforme proposte (Senato, pubblica amministrazione, giustizia,
scuola, legge elettorale ecc.) dimostrano infatti che l'Italia manca delle
fondamenta, di tutto ciò di cui un normale paese occidentale dovrebbe essere
dotato da almeno sessant'anni. Più che di ricostruzione, si dovrebbe parlare di
edificazione tout court. Ma il problema è che tutto questo discutere di
riforme è una pura e semplice illusione.
Riforme e tempistica
Sebbene sia da lungo tempo noto che qualcosa deve
(doveva) essere cambiato nell'architettura dell'economia italiana (e, in
particolare, della finanza pubblica), nei sei anni successivi al crollo
di Lehman Brothers è stata portata a termine una sola riforma
strutturale, quella – assai controversa – delle pensioni attuata dal governo
Monti.
Se questi sono i tempi medi della nostra capacità
riformatrice, aspettarsi che nel breve-medio termine possano vedere la luce così
tante riforme di ampia portata è irragionevole. E non si tratta soltanto della
proverbiale macchinosità dei nostri processi decisionali: l'ordine
costituzionale vigente (e la cultura politica sottesa) combina un potere
esecutivo debole a un potere legislativo frammentato, con una pletora di
autorità e poteri di veto incrociati che finiscono per paralizzare il sistema.
L'odierno contesto politico-istituzionale è dominato da rappresentanti di
diverse forze sociali e politiche esclusivamente interessate a preservare
privilegi acquisiti e rendite di posizione e, quindi, propense a sostenere
l'immobilismo. Le poche, restanti forze produttive (che qualche interesse a
cambiare le cose lo avrebbero) non hanno sostanzialmente voce in capitolo.
Questa ubiqua frammentazione, rintracciabile persino all'interno dei movimenti
politici più piccoli, fa sì che qualsiasi iniziativa si riduca a niente più di
un palliativo.
L'incertezza dei risultati
Poniamoci ora una domanda: se anche le riforme
annunciate fossero realizzate nei tempi previsti, il loro impatto sarebbe
sufficientemente forte (e rapido) da evitare il collasso del sistema-paese?
In passato, l'esistenza di economie relativamente
indipendenti rendeva possibile un buon margine di controllo del ciclo
consumo-produzione-investimenti-occupazione. Per quanto inefficiente e
problematico, quel modello dava ai governi la possibilità di guidare in una
certa misura l'economia nazionale (elemento chiave delle tesi keynesiane).
In un sistema economico globalizzato, nel quale
per definizione la parte più consistente del ciclo economico si svolge al di
fuori del controllo politico del singolo stato, le ramificazioni di
qualsiasi decisione adottata da un determinato paese interessano un sistema
troppo complesso per consentire di formulare precise (o anche solo
approssimative) stime sulla natura, l'entità e la localizzazione dei suoi
effetti reali. Paradossalmente, la manovra degli 80 euro di Renzi potrebbe aver
finito per stimolare la produzione di beni fabbricati in Guangdong più di
qualsiasi attività economica italiana. Nonostante ciò, un elemento ricorrente
del dibattito sulle riforme è proprio l'incapacità di capire quanto sia critica
la posizione dell'Italia nell'economia globale. I nostri governanti possono
anche continuare a raccontarci che "l'Italia è un grande paese con risorse
straordinarie", ma sfortunatamente si tratta di una narrazione del tutto anacronistica.
L'Italia odierna non è quella degli anni Novanta: è cambiata drasticamente, e non in meglio. Fatto ancora più
rilevante, il mondo di oggi non è più quello di vent'anni fa. I cambiamenti
radicali sono stati almeno due: la prima ondata della globalizzazione fino al
2007, e quello che è successo dopo la crisi esplosa negli Stati Uniti nel 2008. In Italia questo
contesto sfugge, e si discute a vuoto su questioni quali l'abolizione
dell'articolo 18 senza considerarne l'ormai sostanziale irrilevanza in un mondo
lavorativo dominato dai contratti "flessibili" e dalla
disoccupazione.
Quali riforme?
Se anche ci spostiamo su un piano internazionale,
possiamo constatare che le riforme tanto auspicate da BCE, organizzazioni
finanziarie, operatori di mercato, nonché autorevoli economisti e giornalisti,
sono alquanto vaghe. Il fondato sospetto è che neppure loro abbiano idee
precise su ciò che dovrebbe essere fatto in concreto. I suggerimenti forniti
restano troppo sfuocati per costituire un'autentica guida politica, come è ad
esempio evidente nella famosa lettera che la BCE inviò al governo italiano
nell'agosto 2011. Quando Münchau scrive che "l'Italia ha bisogno di
modificare il proprio sistema legale, ridurre le tasse e migliorare la qualità
e l'efficienza del settore pubblico" offre certamente consigli ragionevoli
e condivisibili, ma troppo generici. Quali regole potrebbero funzionare? Come
dovrebbero essere attuate? Ci sono i presupposti perché ciò accada? Quali
ostacoli andrebbero superati? Quanto poi al suggerimento di "cambiare
l'intero sistema politico", ciò appare impossibile a meno che non si
sostenga la rottura della continuità costituzionale e l'ascesa di un
"dispotismo illuminato" come quello che contraddistinse le riforme Stein-Hardenberg
nella Prussia del primo Ottocento.
Il "consenso di Washington" è ormai in
declino, e oggi non ci sono chiare indicazioni sulle politiche che potrebbero
garantire condizioni economiche migliori a un determinato paese. Questo ci
conduce al più generale problema dell'inadeguatezza dei modelli socio-economici
oggi dominanti, il "neo-Keynesiano" e quello fondato sull'austerità.
E, andando ancora più a fondo, ci porta a constatare quanto poco utile sia
pensare ancora nei termini "positivistici" propri di paradigmi e
modelli economici – come se il governo dell'economia potesse essere
completamente de-politicizzato. L'ansiosa ricerca di una soluzione definitiva (endgültig)
e "scientificamente corretta" ai problemi economici tradisce un
implicito anti-intellettualismo e una drammatica carenza di leadership da parte
delle élite politiche. Al riguardo, è sintomatico il paradosso implicito
nell'aver trasferito il problema della "guida" sulle spalle dei
banchieri centrali, figure tecniche originariamente de-politicizzate.
A oggi, le proposte di riforma avanzate dai
governi italiani che si sono avvicendati negli ultimi anni restano scarsamente
ambiziose, prive di una chiara logica e idonee a produrre effetti in tempi
troppo dilatati. Del resto, sono proposte in linea di massima legate a dottrine
neo-liberal ormai superate. Tutto ciò non sorprende, se si considera che
qualsiasi ipotesi di riforma dovrebbe nascere da una visione (oggi inesistente)
del futuro del paese, e che comunque questa visione dovrebbe misurarsi con un contesto
socio-politico italiano ed europeo che non lascia sostanziali margini di
manovra. Il piano inclinato imboccato sta portando a concezioni sempre più
astratte e legalistiche (de-politicizzate) della comunità politica che hanno
ridotto l'immagine del paese a un puro e semplice documento di bilancio
finanziario e fiscale. Lavorare e accettare pesantissimi sacrifici per
migliorare uno stato così concepito non ha molto senso.
Al di là di tutte le considerazioni sin qui
esposte, le riforme – fossero anche migliori di quelle viste sinora – arriverebbero
comunque troppo tardi. Il paese è esausto e si trova sull'orlo di
un'irreversibile implosione demografica, economica e sociale. Le riforme
dovevano essere fatte vent'anni fa, quando il contesto nazionale e globale
era molto più favorevole e si dovevano introdurre i cambiamenti necessari per
accedere all'Eurozona ancora in gestazione.
Al punto in cui siamo oggi, le riforme
potrebbero addirittura essere tanto pericolose quanto l'immobilismo,
spingendo il paese verso un'ulteriore destabilizzazione: la Francia del 1789 e
l'Unione Sovietica degli anni Ottanta sono solo due esempi storici di come il
tentativo di introdurre riforme fuori tempo massimo possa innescare il crollo
del sistema che si vorrebbe salvare.
Traiettorie di default
L'articolo di Münchau menziona esplicitamente la
parola "default". Anticipare ciò che è probabile (o inevitabile) che
avvenga in futuro è un vecchio espediente: la verità fa meno male quando
diventa manifesta e ineludibile.
Dovrebbe essere chiaro che l'Italia, a questo
punto, non può più essere salvata. La perdita di capacità industriale è
irreversibile, e il debito pubblico continuerà a crescere fino a quando non si
renderà necessaria una qualche forma di ristrutturazione.
Ci potrebbero comunque essere diverse opzioni per
il default. Il blogger Stefano Bassi, con il suo linguaggio
abitualmente colorito, ha prospettato diversi scenari – il più probabile dei
quali consiste in un progressivo "smantellamento" del paese mirato a
trasferire l'ancora ingente patrimonio privato degli italiani verso il debito
pubblico secondo la logica dei vasi comunicanti. Bassi definisce questa
traiettoria la "Greek Way", e ha probabilmente ragione. Tuttavia,
bisognerebbe considerare che eventi così complessi raramente seguono un
andamento del tutto lineare. Come argomentato da Bootle, i mercati potrebbero
rapidamente cambiare la propria percezione di rischio nei confronti dell'Italia
e agire di conseguenza innescando la speculazione al ribasso e il panico.
Lo scenario di un'implosione controllata e a
lungo termine dell'Italia (e, in prospettiva, di molti altri paesi europei,
Germania inclusa) è realistico solo se accompagnato da una parallela strategia
di "manipolazione monetaria" della BCE, che sempre più appare come il
vero nodo Gordiano della sopravvivenza dell'Euro. Naturalmente, ci sono ben
noti limiti legali e politici a un’ulteriore espansione dell’operatività della
Banca Centrale nella direzione prospettata dalla stampa finanziaria. E il
mandato della BCE, definito secondo precisi trattati internazionali, non può
essere cambiato facilmente. Su questa materia la Germania si è sempre mostrata
inflessibile tenendo un atteggiamento che, in ultima istanza, potrebbe
rappresentare la nemesi dell'ossessione tedesca ed europea (tipica del secondo
dopoguerra) per il ruolo della legge e l'Ordnungspolitik (Politica
dell'Ordine). In tutti i modi, non ci sono garanzie sul fatto che ciò che ha
"funzionato" negli Usa e nel Regno Unito produrrebbe gli stessi
effetti nell'Eurozona.
Un nuovo accordo politico che sostituisca
Maastricht potrebbe certamente essere raggiunto a livello europeo, ma
richiederebbe anni di lavoro e appare tutto sommato improbabile. Senza contare
che è illusorio pensare che gli organi di governo dell'UE (e anche della
Germania) abbiano in serbo idee migliori di quelle attuali in merito a ciò che
dovrebbe essere fatto.
In conclusione...
L'Italia potrà essere "tenuta a galla"
artificialmente per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma non
indefinitamente, perché nel frattempo l'economia reale continuerà a
deteriorarsi e il rapporto debito/Pil continuerà ad aumentare.
Ci sono anche pochi dubbi sul fatto che l'intera
costruzione europea, nonostante gli sforzi di Draghi, continui a mostrare
contraddizioni interne che potrebbero benissimo condurre alla sua dissoluzione:
i difetti sono purtroppo strutturali, e non potranno essere rimossi senza
smantellare l'intera struttura. L'Euro, comunque, non può certamente crollare
dalla sera alla mattina, e la probabilità che l'attuale leadership politica e
finanziaria annunci la fine della moneta comune è paragonabile a quella che un
pilota informi i propri passeggeri di aver perso il controllo dell'aereo:
semplicemente, non accadrà mai. Potrebbe però verificarsi una graduale transizione
verso un nuovo sistema monetario, probabilmente presentato come un
"miglioramento" o un "completamento" della valuta comune:
per esempio, attraverso l'introduzione di un regime duale in alcuni paesi, la
ridenominazione dei debiti nazionali e così via. In realtà, si tratterebbe del
primo passo verso l'abbandono del sistema. Una strada accidentata, se vogliamo,
ma preferibile all'esplodere di forze centrifughe difficilmente controllabili.
Quanto all'Italia, è necessario prendere atto
della cruda ma ineludibile realtà. Per dirla con le parole di Bassi, "non
ci sono soluzioni, e solo ammetterlo porterà a una soluzione".
Traduzione dall’inglese di Andrea Muzzarelli
fonte
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