[Carta di Laura Canali]
Ci attendiamo
che gli Usa garantiscano la sicurezza del Vecchio Continente. Washington
però ormai guarda al Pacifico, mentre ai nostri confini ci sono due
crisi che non possiamo più ignorare.
Nella storia dei popoli esistono periodi caratterizzati da mutamenti tanto rapidi, radicali e continuati che il cambiamento cessa di essere l’eccezione e la stabilità la regola.
Diviene vero il contrario: il cambiamento si fa regola e la stabilità è degradata a eccezione, in una cornice in cui la storia appare destinata a travolgere nella sua inarrestabile, tumultuosa avanzata chiunque non riesca a mantenere il suo ritmo rimanendo sempre sulla cresta dell’onda.
È quanto sta avvenendo in questo momento. Dopo un lungo periodo di apparente immobilità, propiziata da un confronto bipolare tra due blocchi apparentemente avversari ma che in realtà si aiutavano l’un l’altro a mantenere salda la condivisione del mondo, il vaso di Pandora si rivela di nuovo palesemente aperto, lasciando via libera ad ambizioni e rivalità che per lungo tempo noi abbiamo sottovalutato e che solo ora appaiono in tutta la loro evidente estrema pericolosità.
In questo contesto l’Unione Europea, fiera sino a ieri delle due generazioni di pace dopo millenni di guerra che essa giustamente considera come la migliore e la più valida delle sue conquiste, si rende improvvisamente conto di come la storia abbia l’abitudine di rimescolare le carte in continuazione e di come nessuna conquista possa essere considerata duratura se non le si dedicano tutta la cura e i sacrifici che essa richiede.
In periodi tesi come quello attuale dobbiamo in primo luogo essere sinceri con noi stessi e pronti a riconoscere e a correggere le nostre colpe se e quando qualcosa va male. In effetti, in questo momento alcuni fra i maggiori difetti della nostra incompleta costruzione comunitaria si stanno impietosamente evidenziando.
In materia di pace abbiamo infatti seguito due politiche tra loro nettamente contrastanti. La prima era una politica declamatoria e irenica che esaltava la pace come lo stato di natura ideale che ci permetteva di esprimere al meglio tutti i valori in cui credevamo. La seconda era invece la politica della realtà, quella fatta dalle grandi e piccole decisioni di tutti i giorni. Una politica che in tutti gli Stati membri della Unione è stata orientata per anni a lesinare proprio su quelle spese per la sicurezza che costituivano il sacrificio indispensabile per il mantenimento e la corretta manutenzione della nuova pax europea.
La speranza rimaneva sempre quella di poter scaricare su altri la parte del fardello comune che ci spettava. Prima sul Grande Fratello d’oltre Atlantico, poi, quando è divenuto chiaro che dal tradizionale legame bilaterale anche egli voleva soltanto prendere e non era più disposto a dare, sugli altri Stati dell’Unione. Fra i fratelli europei si è innescata così una vera e propria corsa al ribasso in cui hanno sempre prevalso gli aspetti del più bieco degli egoismi.
Come risultato ci ritroviamo adesso con il fuoco alle frontiere. Bruciano i campi dei nostri vicini e ciò significa che è molto facile che il fuoco si estenda rapidamente anche alle nostre culture. Ricordate l’espressione romana Hannibal ad ianuas!, “Annibale è alle porte”? Beh, questa volta Annibale è veramente di nuovo alle nostre porte; per di più bussa contemporaneamente a Nordest e a Sud. Alcune crisi ancora non si profilano con chiarezza come minacce ma come tali potrebbero evidenziarsi da un momento all’altro, magari senza preavviso e con estrema virulenza.
In una situazione del genere – alle frontiere orientali una Russia divenuta rapidamente tanto ostile da ritenere necessario ricordarci quasi quotidianamente che lei è una delle due grandi potenze nucleari del mondo; alle frontiere meridionali un islam dilaniato da un contrasto fra sciiti e sunniti sempre più sanguinoso e che non riesce a mantenere sotto controllo schegge impazzite di fanatici capaci di esprimere soltanto paura ed odio – ci si aspetterebbe dall’Unione Europea una reazione concordata rapida ed efficace.
In altri momenti critici della sua storia ciò è avvenuto. Questa capacità dell’Europa di riuscire ad andare avanti soltanto all’ultimo minuto utile ci aveva fatto ironizzare sulla strana peculiarità di una istituzione che si rivelava in grado di dare il meglio soltanto in momenti di consolidata frustrazione e di angosciosa paura. Adesso invece l’Ue non accenna a muoversi e a fare il salto di qualità che sarebbe indispensabile. La sua inerzia esalta addirittura, per contrasto, il dinamismo della Lega Araba che in questi ultimi tempi si è dimostrata capace, se non altro, di non nascondersi i problemi e di assumere decisioni che sino a ieri sarebbero sembrate impossibili.
Sembra quasi che fra Lega Araba e Unione Europea i ruoli siano ora completamente invertiti rispetto a 15/20 anni fa, allorché era il Sud Mediterraneo a crogiolarsi in un immobilismo suicida mentre il Nord ancora appariva pieno di vitalità. Paesi vecchi e di vecchi? Declino biologico, oltre che declino storico? Di sicuro c’è parecchio di questo, anche se l’invecchiamento dei nostri paesi non riesce a giustificare da solo né la loro inerzia né la rapidità del loro discesa.
In tale contesto è deleterio che noi continuiamo – come innamorati traditi che non vogliono accettare la separazione definitiva e confidano nell’impossibile ritorno dell’amata – ad aspettare che gli Usa riprendano il ruolo guida che erano stati capaci di esprimere nell’ambito del legame transatlantico per più di cinquant’anni e ci costringano loro a prendere quelle decisioni che per ora sembriamo non essere capaci di prendere da soli.
Aspettiamo così un Godot che non verrà mai, ora che l’era del Pacifico ha definitivamente preso il posto di quella dell’Atlantico. Più aspettiamo senza agire più ci indeboliamo, innescando un rapporto causa-effetto destinato a rendere ancora più improbabile un eventuale ritorno che comporterebbe anche l’obbligo di supplire alle nostre carenze.
Forse per noi è anche meglio che il nostro Godot non sia orientato a tornare: la politica statunitense degli ultimi anni, esaminata in ottica europea, ha reso pericolosissimo il nostro rapporto con il mondo arabo, difficile quello con l’Iran e angosciante quello con la Russia. Da chiedersi inoltre cosa potrebbe succedere domani ove al posto di un presidente ragionevole per quanto debole come Obama dovesse essere eletto un esaltato repubblicano, magari del Tea Party!
Di pari passo con l’attesa quasi messianica del ritorno Usa in Europa va la fiducia che ancora continuiamo a concedere a scatola quasi chiusa al Patto Atlantico e alla Nato. Rifiutiamo di accorgerci che essi sono scaduti da strumento politico principe dell’Occidente dotato di un adeguato ed efficace braccio armato a semplice serbatoio di forze militari fra loro compatibili, cui si attinge sulla base di logiche spesso leonine e discutibili. Basti pensare ai casi della Georgia e dell’Ucraina, in cui la Nato a cuor leggero ha contribuito a creare gravi crisi che non ha avuto poi la capacità di affrontare efficacemente.
Nonostante ciò, continuiamo a confidare per la nostra difesa collettiva in un’organizzazione datata che avrebbe bisogno di una revisione tanto radicale da essere quasi una ricostruzione su basi differenti e che rischia di essere paralizzata – o male indirizzata nel momento del bisogno – da logiche a noi estranee.
C’è da chiedersi se ciò non avvenga perché questa situazione consente ai complessi militar-industriali europei di continuare a crogiolarsi nella loro inefficienza, perpetuando l’assurdo di Forze armate che mantengono sotto le armi più di un milione e mezzo di persone e dispongono di un bilancio pari al 40% di quello Usa ma rimangono ben lontane dall’esprimere le prestazioni che da tali numeri sarebbe logico pretendere.
La quadratura di questo cerchio consisterebbe, come già detto, nell’edificazione di un vero e proprio strumento europeo di difesa. Ciò dal punto di vista politico ci darebbe il vantaggio di poter essere completamente autonomi nelle decisioni concernenti la nostra sicurezza, mentre da quello economico ci permetterebbe di fruire di indubbie economie di scala. L’operatività delle nostre forze ne sarebbe inoltre considerevolmente esaltata. Cosa aspettiamo allora per fare questo passo decisivo e indispensabile?
Quando si trattò di unificare la moneta sapemmo procedere rapidamente e bene. Perché esitiamo ora che è chiaramente giunto il momento in cui la ritardata unificazione dei nostri strumenti di difesa ci pone di fronte a rischi che non è esagerato considerare inaccettabili?
Annibale, giunto alle porte di Roma, si limitò a un gesto simbolico: lanciò una lancia oltre le mura serviane prima di ritirarsi verso Capua. Fu una fortuna per Roma, rimasta sguarnita e quindi non adeguatamente difesa. Ma non sempre nella storia fortune del genere si ripetono!
Per approfondire: Dopo Parigi, che guerra fa
L’autore di questo articolo è Generale della riserva dell’Esercito. Già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ueo. Consigliere scientifico di Limes.
Diviene vero il contrario: il cambiamento si fa regola e la stabilità è degradata a eccezione, in una cornice in cui la storia appare destinata a travolgere nella sua inarrestabile, tumultuosa avanzata chiunque non riesca a mantenere il suo ritmo rimanendo sempre sulla cresta dell’onda.
È quanto sta avvenendo in questo momento. Dopo un lungo periodo di apparente immobilità, propiziata da un confronto bipolare tra due blocchi apparentemente avversari ma che in realtà si aiutavano l’un l’altro a mantenere salda la condivisione del mondo, il vaso di Pandora si rivela di nuovo palesemente aperto, lasciando via libera ad ambizioni e rivalità che per lungo tempo noi abbiamo sottovalutato e che solo ora appaiono in tutta la loro evidente estrema pericolosità.
In questo contesto l’Unione Europea, fiera sino a ieri delle due generazioni di pace dopo millenni di guerra che essa giustamente considera come la migliore e la più valida delle sue conquiste, si rende improvvisamente conto di come la storia abbia l’abitudine di rimescolare le carte in continuazione e di come nessuna conquista possa essere considerata duratura se non le si dedicano tutta la cura e i sacrifici che essa richiede.
In periodi tesi come quello attuale dobbiamo in primo luogo essere sinceri con noi stessi e pronti a riconoscere e a correggere le nostre colpe se e quando qualcosa va male. In effetti, in questo momento alcuni fra i maggiori difetti della nostra incompleta costruzione comunitaria si stanno impietosamente evidenziando.
In materia di pace abbiamo infatti seguito due politiche tra loro nettamente contrastanti. La prima era una politica declamatoria e irenica che esaltava la pace come lo stato di natura ideale che ci permetteva di esprimere al meglio tutti i valori in cui credevamo. La seconda era invece la politica della realtà, quella fatta dalle grandi e piccole decisioni di tutti i giorni. Una politica che in tutti gli Stati membri della Unione è stata orientata per anni a lesinare proprio su quelle spese per la sicurezza che costituivano il sacrificio indispensabile per il mantenimento e la corretta manutenzione della nuova pax europea.
La speranza rimaneva sempre quella di poter scaricare su altri la parte del fardello comune che ci spettava. Prima sul Grande Fratello d’oltre Atlantico, poi, quando è divenuto chiaro che dal tradizionale legame bilaterale anche egli voleva soltanto prendere e non era più disposto a dare, sugli altri Stati dell’Unione. Fra i fratelli europei si è innescata così una vera e propria corsa al ribasso in cui hanno sempre prevalso gli aspetti del più bieco degli egoismi.
Come risultato ci ritroviamo adesso con il fuoco alle frontiere. Bruciano i campi dei nostri vicini e ciò significa che è molto facile che il fuoco si estenda rapidamente anche alle nostre culture. Ricordate l’espressione romana Hannibal ad ianuas!, “Annibale è alle porte”? Beh, questa volta Annibale è veramente di nuovo alle nostre porte; per di più bussa contemporaneamente a Nordest e a Sud. Alcune crisi ancora non si profilano con chiarezza come minacce ma come tali potrebbero evidenziarsi da un momento all’altro, magari senza preavviso e con estrema virulenza.
In una situazione del genere – alle frontiere orientali una Russia divenuta rapidamente tanto ostile da ritenere necessario ricordarci quasi quotidianamente che lei è una delle due grandi potenze nucleari del mondo; alle frontiere meridionali un islam dilaniato da un contrasto fra sciiti e sunniti sempre più sanguinoso e che non riesce a mantenere sotto controllo schegge impazzite di fanatici capaci di esprimere soltanto paura ed odio – ci si aspetterebbe dall’Unione Europea una reazione concordata rapida ed efficace.
In altri momenti critici della sua storia ciò è avvenuto. Questa capacità dell’Europa di riuscire ad andare avanti soltanto all’ultimo minuto utile ci aveva fatto ironizzare sulla strana peculiarità di una istituzione che si rivelava in grado di dare il meglio soltanto in momenti di consolidata frustrazione e di angosciosa paura. Adesso invece l’Ue non accenna a muoversi e a fare il salto di qualità che sarebbe indispensabile. La sua inerzia esalta addirittura, per contrasto, il dinamismo della Lega Araba che in questi ultimi tempi si è dimostrata capace, se non altro, di non nascondersi i problemi e di assumere decisioni che sino a ieri sarebbero sembrate impossibili.
Sembra quasi che fra Lega Araba e Unione Europea i ruoli siano ora completamente invertiti rispetto a 15/20 anni fa, allorché era il Sud Mediterraneo a crogiolarsi in un immobilismo suicida mentre il Nord ancora appariva pieno di vitalità. Paesi vecchi e di vecchi? Declino biologico, oltre che declino storico? Di sicuro c’è parecchio di questo, anche se l’invecchiamento dei nostri paesi non riesce a giustificare da solo né la loro inerzia né la rapidità del loro discesa.
In tale contesto è deleterio che noi continuiamo – come innamorati traditi che non vogliono accettare la separazione definitiva e confidano nell’impossibile ritorno dell’amata – ad aspettare che gli Usa riprendano il ruolo guida che erano stati capaci di esprimere nell’ambito del legame transatlantico per più di cinquant’anni e ci costringano loro a prendere quelle decisioni che per ora sembriamo non essere capaci di prendere da soli.
Aspettiamo così un Godot che non verrà mai, ora che l’era del Pacifico ha definitivamente preso il posto di quella dell’Atlantico. Più aspettiamo senza agire più ci indeboliamo, innescando un rapporto causa-effetto destinato a rendere ancora più improbabile un eventuale ritorno che comporterebbe anche l’obbligo di supplire alle nostre carenze.
Forse per noi è anche meglio che il nostro Godot non sia orientato a tornare: la politica statunitense degli ultimi anni, esaminata in ottica europea, ha reso pericolosissimo il nostro rapporto con il mondo arabo, difficile quello con l’Iran e angosciante quello con la Russia. Da chiedersi inoltre cosa potrebbe succedere domani ove al posto di un presidente ragionevole per quanto debole come Obama dovesse essere eletto un esaltato repubblicano, magari del Tea Party!
Di pari passo con l’attesa quasi messianica del ritorno Usa in Europa va la fiducia che ancora continuiamo a concedere a scatola quasi chiusa al Patto Atlantico e alla Nato. Rifiutiamo di accorgerci che essi sono scaduti da strumento politico principe dell’Occidente dotato di un adeguato ed efficace braccio armato a semplice serbatoio di forze militari fra loro compatibili, cui si attinge sulla base di logiche spesso leonine e discutibili. Basti pensare ai casi della Georgia e dell’Ucraina, in cui la Nato a cuor leggero ha contribuito a creare gravi crisi che non ha avuto poi la capacità di affrontare efficacemente.
Nonostante ciò, continuiamo a confidare per la nostra difesa collettiva in un’organizzazione datata che avrebbe bisogno di una revisione tanto radicale da essere quasi una ricostruzione su basi differenti e che rischia di essere paralizzata – o male indirizzata nel momento del bisogno – da logiche a noi estranee.
C’è da chiedersi se ciò non avvenga perché questa situazione consente ai complessi militar-industriali europei di continuare a crogiolarsi nella loro inefficienza, perpetuando l’assurdo di Forze armate che mantengono sotto le armi più di un milione e mezzo di persone e dispongono di un bilancio pari al 40% di quello Usa ma rimangono ben lontane dall’esprimere le prestazioni che da tali numeri sarebbe logico pretendere.
La quadratura di questo cerchio consisterebbe, come già detto, nell’edificazione di un vero e proprio strumento europeo di difesa. Ciò dal punto di vista politico ci darebbe il vantaggio di poter essere completamente autonomi nelle decisioni concernenti la nostra sicurezza, mentre da quello economico ci permetterebbe di fruire di indubbie economie di scala. L’operatività delle nostre forze ne sarebbe inoltre considerevolmente esaltata. Cosa aspettiamo allora per fare questo passo decisivo e indispensabile?
Quando si trattò di unificare la moneta sapemmo procedere rapidamente e bene. Perché esitiamo ora che è chiaramente giunto il momento in cui la ritardata unificazione dei nostri strumenti di difesa ci pone di fronte a rischi che non è esagerato considerare inaccettabili?
Annibale, giunto alle porte di Roma, si limitò a un gesto simbolico: lanciò una lancia oltre le mura serviane prima di ritirarsi verso Capua. Fu una fortuna per Roma, rimasta sguarnita e quindi non adeguatamente difesa. Ma non sempre nella storia fortune del genere si ripetono!
Per approfondire: Dopo Parigi, che guerra fa
L’autore di questo articolo è Generale della riserva dell’Esercito. Già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ueo. Consigliere scientifico di Limes.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.