Chi ha avuto la sfortuna d’iniziare un
percorso di cura per una qualsiasi malattia (per se o assistendo parenti
o amici) ha sicuramente avuto l’impressione di entrare in un enorme
macchina mangia soldi, dove ci si è sentiti semplicemente un numero o un
paziente da spolpare. Visite specialistiche, esami con strumenti
supertecnologici, interventi chirurgici, acquisto di farmaci a gògò.
Tale realtà è ancora più percepita da quei malati entrati in un
meccanismo di cronicità che rappresenta il vero business dell’”industria
del malato”.
Pensate che queste multinazionali della
sanità abbiano interessi particolari a renderci indipendenti dalle loro
cure, visto che dalla nostra disgrazia traggono il loro profitto?
Vediamo insieme i numeri di questo fenomeno.
Prendiamo ad esempio la malattia
cardiovascolare. Iniziare un percorso di cura prevede una dipendenza
continua dai farmaci (sempre in incremento con l’età e la progressione
della malattia), che non risolvono la causa ma curano solo i sintomi.
Questo metodo di intervento farmacologico, causerà un peggioramento
della malattia quindi un incremento dei sintomi e parimenti dell’uso di
medicinali. Inevitabilmente bisognerà ricorrere ad interventi
chirurgici (by pass, stenth, peacemaker) per cadere inevitabilmente
nelle fauci dell’industria dell’assistenza domiciliare ed ospedaliera.
Parliamo di un fatturato annuo complessivo di 22,3 miliardi di euro (solo in Italia).
Vediamo il costo per la collettività per alcune delle malattie più comuni:
- La sanità spende ogni anno, solo per curare i nuovi pazienti di tumore, ben € 8,3 miliardi (di media € 26.000 a paziente , );
- Il diabete ci sosta un milione di euro l’ora, raggiungendo un costo complessivo di € 9 miliardi l’anno.
- Il Morbo di Alzheimer costa € 60.000 l’anno per paziente, incidendo per € 31 miliardi annui alla società.
Invece per continuare a curare anziani e vecchi arriviamo a spendere € 36,4 miliardi l’anno.
Complessivamente “l’industria del malato” costa alla collettività l’8% del Pil annuo, tradotto in euro, 112 miliardi.
Un’incredibile economia gira intorno ad
un’industria che si preoccupa di curare i sintomi ma non certo le cause
che l’hanno generati. È come voler risolvere il problema della fame del
mondo vendendo alle popolazioni povere del pesce, senza insegnare loro a
pescare.
Un atteggiamento simile si sposa
completamente con la mentalità della classe medica odierna, a mio avviso
totalmente in contrasto con altre famose e rinomate medicine (definite
non convenzionali), come quella cinese o indiana (ayurvedica).
La medicina ufficiale e la scienza
farmacologica, hanno perso la loro vocazione originale. Ad esempio,
quando gli oncologi si trovano di fronte un paziente malato di tumore,
il loro pensiero accademico li porta a studiare una strategia per
estirparlo con le armi a loro disposizione: operazioni chirurgiche,
chemio terapia o radio terapia. Quando invece, il nostro corpo, sarebbe
in grado di far regredire il tumore, risolvendo le cause che hanno
alterato la sua omeostasi (evitando così anche le recidive).
In verità, la medicina moderna è in contraddizione anche con la stessa medicina occidentale delle origini.
Vi faccio un esempio.
Ippocrate, l’inventore della medicina
occidentale (ogni medico è tenuto a recitare e s’intende rispettare il
famoso “Giuramento di Ippocrate”) affermò 400 anni prima di Cristo:
“Se fossimo in grado di fornire alle
persone la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, avremmo
trovato la strada della salute”.
Avete capito amici miei?
Ippocrate non ha parlato della giusta
medicina, bensì di giusta alimentazione (compresa l’integrazione) ed
esercizio fisico. In altre civiltà come quella cinese ed indiana, la
prima preoccupazione del medico è quella di ripristinare il giusto
equilibrio fisico e spirituale, senza ricercare cure miracolose.
Semplicemente perché essi più di 3.000 anni fa, già compresero, che i
problemi del nostro corpo dipendono dal suo disequilibrio e non da
problemi di Dna o perchè stiamo invecchiando, come sentiamo dire spesso
dai nostri medici.
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